Gaia Piccardi, Sette 6/6/2014, 6 giugno 2014
IL GIOVANE HOLDEN DEL GOL ASCOLTA SOLO LA MAMMA
Eravamo tutti un po’ impreparati, pensosi e stupiti, il giorno in cui Mario diventò Balotelli senza esitazione, e senza preavviso. Non una mail, non un colpo di telefono, nemmeno un tweet per dire: eccomi, sto arrivando.
Un giovedì di giugno, sera inoltrata, estate piena. Trenta gradi, granite al limone e rumore di nemici ovunque. Poi, di colpo, il boato secco di quando un jet rompe il muro del suono: è rotolato giù da Varsavia e da quella cresta che a volte sembra una siepe perimetrale: di qua il genio, di là la sregolatezza. Doppietta alla Germania, Italia in finale all’Europeo 2012 contro la Spagna. Doveva levarsi la maglia, e restare a petto nudo e nero, Mario Barwuah Balotelli, il nuovo italiano, perché tutti ci sentissimo, finalmente, un po’ più orgogliosi di esserlo anche noi.
Mario da Concesio è (ri)nato tra Polonia e Ucraina, vagendo di felicità dentro quella semifinale così meravigliosamente sincronizzata con i precedenti contro i tedeschi, e così magicamente disallineata con i precedenti con se stesso.
Nell’azzurro era entrato, due giorni prima di compiere 20 anni (10 agosto 2010, Italia-Costa d’Avorio 0-1), da bambino alto un metro e novanta, bomber incompiuto, playboy da strapazzo, collezionista di zuffe, fidanzate e guai, lui l’indiano metropolitano con i segni di guerra dipinti sulla schiena (i cerotti blu a rilascio progressivo), il figliol prodigo di Cesare Prandelli con mille alibi infilati nel trolley, e in una storia di vita in salita come nessun campo da calcio sarà mai. Ma a volte – è dimostrato – basta prendere a calci il destino per modificarne, quel tanto che serve, la traiettoria.
Talento per gol e guai. Oggi, vigilia del Mondiale che sarà un torneo ad altissimo tasso di Prandelli e Balotelli, pensavamo di sapere tutto di Mario Berwuah, palermitano di nascita prima di diventare lumbard d’adozione, figlio di immigrati ghanesi trapiantato alle pendici di Brescia in tempo per assorbire l’accento che ha esportato nel mondo insieme al suo talento immenso per i gol e i pasticci, dal Lumezzane all’Inter, al Manchester City, al Milan in piena crisi d’identità, la squadra per la quale ha sempre tifato, pessimo skipper di se stesso ma straordinario mozzo di ottimi capitani di vascello: prima Roberto Mancini (ritrovato a Manchester) poi Mourinho e infine quel grammelot di panchine rossonere (Allegri, Seedorf, Inzaghi) di fronte al quale sarebbe andato in confusione anche Rivera. Mario è un giovane Holden punkabbestia q.b. (quanto basta), parecchio incorrect, solista nel suo stesso romanzo di formazione, bomber egoista però capace di sciogliersi davanti al sorriso dolcissimo di mamma Silvia – l’unica donna al mondo che può permettersi di dirgli cosa fare, quando farlo e come farlo senza essere mandata al diavolo – e ai piedini di fata della piccola Pia (l’immagine-simbolo del suo profilo Twitter), la figlia che da Napoli, in costante contatto telepatico e animico, lo sta costringendo a diventare grande. Fu Silvia a spalancargli braccia, famiglia e focolare a due anni, quando il tribunale dei minorenni decise il primo trasferimento (a parametro zero) della carriera di Mario: dall’ospedale di Palermo, dov’era stato lasciato dai genitori naturali, al Nord, chez i Balotelli.
Un ruolo al centro. È una vita, 24 anni il 12 agosto, che Mario insegue quel nucleo caldo di cui si è sentito privato in culla dentro gli spogliatoi, le formazioni titolari, il letto delle femmine che popolano (o, prima di Fanny, hanno popolato) la sua esistenza orizzontale, oblomoviano irriducibile, incollato a quella zona franca senza modulo nella quale si è sentito autorizzato a muoversi sopra le regole, parcheggiando l’auto dov’era vietato, lanciando petardi dove non si poteva, mettendo le mani in faccia a chi poi le mette a lui. Tutto conta, tutto vale per piantarsi al centro dell’attenzione e sentirsi vivo. Una sberla, un selfie, un gol. Mi giudicano (prevalentemente male), ergo sum.
Ci voleva Prandelli, il commissario tecnico che negli ultimi quattro anni ha gestito la Nazionale con la saggezza del pater familias, l’esperienza dell’ex calciatore e la pazienza di Giobbe, per restituire a Mario Balotelli rispetto e fiducia, nonostante il monello abbia fatto, negli anni, (quasi) di tutto per lasciarsi sfuggire dai piedi questo Mondiale 2014 così avaro di attaccanti azzurri: maltrattando il codice etico e il buonsenso, inseguito dai soliti fantasmi e dai paparazzi.
È in Brasile, tra le spine del gruppo D con Uruguay, Costa Rica e Inghilterra, l’occasione di una vita. Conficcare a calci la Nazionale italiana nel cuore del Mondiale, fregandosene dell’umidità, della caipirinha, dei tanga che gli passeranno sotto il naso, degli avversari e delle critiche. Solo così, entrato nella cabina del telefono da SuperMario il casinista, può uscirne salvatore della patria.
“Chi sei? Tu non capisci di calcio. Fidati”, ci direbbe col vocione da ras del quartiere e lo sguardo di sfida che si è tatuato addosso, se fosse qui. Ha ragione. Perché, in fondo, il vero Himalaya per Balotelli non è fare il suo mestiere, il calcio. È sorridere. Un evento. Gioire di quello, poco o tanto, che fa. Levarsi ancora la maglia per mostrare i muscoli da futuro capitano. Restare lontano dalle pupe per quattro settimane di torneo. Permettere alla sua quotazione di impennarsi verso il vero Milan, non quello annacquato delle ultime due stagioni, o verso un clamoroso ritorno in Premier League, dopo il giro di boa del Sudamerica che gli cambierà, nel bene o nel male, la rotta.
Fidati tu, Mario, di te, per una volta. Tu che sapevi già tutto quando noi non avevamo ancora capito niente.