Rocco Cotroneo, Sette 6/6/2014, 6 giugno 2014
SOLO CHI CONOSCE LA PELADA PUÒ CAPIRE IL BRASILE
La pelada. Senza la pelada non si può capire cos’è il calcio in Brasile. È la partitella che si gioca ovunque, poche regole, nessuna limitazione di spazio e tempo, organizzata come capita, chi c’è c’è. Tutto il contrario della Fifa, insomma. Nell’immaginario collettivo, il calcio in Brasile è quel che è perché i ragazzini neri e poveri scendono dalla favela, vanno in spiaggia e si fanno gambe e tecnica correndo dietro una palla di stracci. È la narrazione mitica, nata con i Pelé e i Garrincha. Ma è solo una parte della storia. Oggi il pallone l’hanno tutti, mentre la spiaggia è spesso lontana. Guardate queste foto. In che altro posto al mondo potrebbe venire in mente di giocare sulla terrazza di un palazzo o su una piattaforma petrolifera in alto mare? La fantasia tra i piedi non sarebbe mai nata senza la creatività – altrettanto unica – di arrangiare sempre un posto e un’ora per giocare. A sentire chi se ne intende, poi, non è vero che la spiaggia sia all’origine della più gioiosa macchina di campioni della storia. Sul duro asfalto di un cortile o in uno sterrato di periferia serve molta più abilità. Nel vicolo della favela ripida il controllo è tutto, per non far finire la palla contro un vetro o giù per le scale. La stragrande maggioranza dei campioni che abbiamo conosciuto non hanno cominciato sulle sabbie di Santos o di Copacabana. Raramente hanno fatto strada i prestigiatori naturali del pallone, i fenomeni e gli sbruffoni, contando assai di più il sacrificio, l’ambizione, la tenacia. E una volta arrivati i primi soldi e la fama, soprattutto l’equilibrio emozionale. Pochi anni fa fece scalpore in campionato un ragazzino chiamato Kerlon, detto Foquinha (la piccola foca). Si era inventato il dribbling con la testa, facendo rimbalzare la palla sopra gli avversari per umiliarli, mentre il pubblico ululava di ammirazione. Cominciò a prendere tante botte che dovette smettere, ogni volta finiva in rissa con cartellini gialli e rossi. Non ci sono notizie recenti di Foquinha, e la sua fama è rimasta confinata ai filmini su YouTube. Piace immaginarlo, ma con quelli come lui il Brasile non avrebbe vinto cinque campionati del mondo. Senza l’intervento delle geometrie di Falcão, degli affondi di Zico, il calcio tutto spettacolo delle origini sarebbe oggi preistorico. Peccato che quei due leggendari giocatori di Mondiali non ne abbiano vinti, cattiverie della Storia.
Sotto rete alle cinque del mattino. Ma torniamo alla pelada. Letteralmente vuol dire “nuda”. Mulher pelada significa donna nuda. Nei bar, a chiedere spiegazioni si ottengono, appunto, risposte da bar. «La chiamiamo così, perché a noi brasiliani piacciono quelle due cose lì». In realtà pare che la parola derivi proprio dal campo spelacchiato, senza erba, dove si gioca il 99,9 per cento delle partite di calcio in Brasile. L’altra ipotesi etimologica parte dal fatto che, in mancanza d’altro, molte sfide avvengono dividendo le squadre tra quelli con la maglietta e quelli a torso nudo.
Sulla supremazia planetaria del futebol esistono varie teorie, ma è probabile che nessuna batta i grandi numeri. Duecento milioni di abitanti e campi di calcio ovunque. La fabbrica dei campioni è sempre aperta, dall’Amazzonia alle pampas del Sud. Serve molta flessibilità: si gioca anche se il campo non è rettangolare o piano, in numero dispari e l’orario non importa. A Rio de Janeiro esistono campi regolamentari dove c’è gente che gioca anche alle quattro o cinque del mattino. Quella del quartiere di Gloria la chiamano la pelada dos garçoes, la partitella dei camerieri. I quali finiscono i turni di lavoro nei ristoranti, spesso massacranti – perché in Brasile il cliente ha il diritto di stare al tavolo finché ne ha voglia – e poi vanno a fare quattro tiri fino all’alba. Bisogna davvero amarlo, il pallone. Non contano età e classe sociale. Il 70enne Chico Buarque ancora oggi antepone alle sue attività di musicista e scrittore le tre partite alla settimana, caschi il mondo, con la sua squadra amatoriale Politheama. La quale, sostiene lui, non ha mai perso una partita. Buarque conosce a memoria le formazioni ungheresi degli anni Cinquanta. Ma in genere il brasiliano, più che intenditore di calcio, è tifoso. Dalla finale della Coppa del Mondo alla pelada dietro casa, quel che conta è vincere.
La chiamata dei club stranieri. Certo, ancora oggi il calcio è la principale speranza di riscatto sociale ed economico per milioni di ragazzini. Fame di successo, gloria e denaro. Nell’inno alternativo dei Mondiali, in risposta a quello ufficiale girato dalla Fifa a Miami, il funker MC Gume chiama l’amico Neymar a palleggiare nel videoclip O pais do futebol, girato in un gruppo di favelas. «Dovunque passiamo è show, e guardate dove siamo arrivati, ma la strada è nostra e sempre lo sarà». E il campione testimonia: «Credere all’impossibile, sempre!». Il destino dei migliori verso i grandi club stranieri fa storcere il naso ai nazionalisti ma è ormai considerato ineluttabile. Anche in questo Mondiale, i giocatori in maglia verdeoro che giocano in patria si contano sulle dita di una mano, appena quattro. Per un brasiliano che finisce al Barcellona, ce ne sono 500 in altri club europei e altrettanti sparsi in remoti Paesi asiatici e africani, i cui campionati non verranno mai trasmessi in tv. Nessuno parlerà mai di loro, ma a casa arrivano soldi, poi torneranno qui per vivere in un bel quartiere all’americana, con il Suv parcheggiato in garage e a fianco la ragazza più carina del quartiere. Sperando che nel frattempo non abbiano dissipato tutto in feste gigantesche.
Corsa contro il tempo. Andarsene significa anche lasciare alle spalle il disastro che è oggi il calcio in Brasile, i suoi paradossi. Come dice Juca Kfouri, uno dei principali commentatori sportivi, «abbiamo i migliori calciatori del mondo e quanto di peggio esista in dirigenti, organizzazione, logistica». Le società, in mano a cricche di dirigenti corrotti che si autoriproducono, sono sempre sull’orlo del fallimento; i calendari sono surreali, con tornei che si accavallano fino a costringere un giocatore a 70-80 partite all’anno; gli stadi sono vuoti, è difficile andare a vedere una partita senza rischiare di finire in una rissa; gli orari dipendono dalla tv e spesso si gioca alle dieci di sera, per non disturbare la telenovela in prime time. Un movimento di giocatori chiamato “Bom senso FC” porta avanti da tempo un pacchetto di proposte per cambiare le cose. Giocano qui, non sono miliardari e sono stufi di vivere in un mondo che ricorda le peladas di qualche anno prima, senza averne la magia e la carica di speranza. La settimana scorsa, approfittando dei Mondiali, sono riusciti a farsi ricevere dalla presidente Dilma Rousseff. La quale ha ammesso di essere caduta dalle nuvole, non sapeva che il futebol in Brasile fosse arrivato a un punto così basso. In questi giorni i leader della politica e del calcio hanno altro a cui pensare. Dopo la pessima figura sulla preparazione degli stadi, il Brasile deve dimostrare di riuscire a passare indenne questo mese di fuoco. Il drammaturgo Nelson Rodriguez scrisse che i titoli mondiali arrivati dopo la disfatta del 1950 (il celebre Maracanazo) contribuirono a far perdere al brasiliano il complesso del cane randagio, così forte in una società che vive con angoscia le sue inferiorità in tanti campi. Il sesto titolo mondiale difficilmente potrà fare di più, ma un Mondiale in casa dove tutto fila liscio sì. E molto.