Aldo Cazzullo, Sette 6/6/2014, 6 giugno 2014
INTERVISTA A PRENDELLI
Prandelli, chi vince il Mondiale?
«Il Brasile è davvero formidabile. Davanti fa paura, il centrocampo è solidissimo, la difesa forse un po’ meno. Ma sono i favoriti. Poi Germania, Spagna, Argentina».
E noi?
«Non siamo i più forti. Ma possiamo battere i più forti».
Come due anni fa all’Europeo, quando in semifinale battemmo la Germania, che forse era più forte di noi.
«Tolga il “forse”. Noi italiani però siamo capaci di un colpo di genio, di un atto di fantasia, di una mossa imprevista che popoli e squadre più organizzati faticano a cogliere».
Quale fu il colpo di genio di quella semifinale?
«Con i ragazzi ci accorgemmo che la Germania recuperava palla quasi sempre sulle fasce. Decidemmo insieme di giocare per vie centrali, per poi allargare all’improvviso. Impiegarono quasi tutta la partita ad accorgersene».
Il calcio rispecchia il nostro carattere nazionale?
«Certo. Siamo troppo polemici e divisi. Ma a volte nella polemica troviamo un surplus di forza e di convinzione. Reagiamo solo dopo aver toccato il fondo. Non siamo un popolo da circostanze ordinarie».
Questa non lo è.
«È vero. L’uscita dalla crisi è come il dopoguerra. Il Paese era distrutto. Fu ricostruito. Nessuno aveva l’automobile, ma si andava in bicicletta. E si pedalava».
Oggi vede la stessa reazione?
«No. Oggi i giovani hanno perso capacità di sacrificio e fiducia nel futuro, non hanno il senso della sofferenza. Ma la colpa è di noi genitori. Che li abbiamo viziati troppo».
Suo figlio Nicolò lavora con lei in Nazionale.
«Non è vero. Sono stato accusato di familismo per questo, ma ingiustamente. Mio figlio lavora nel Parma. Si è aggregato alla Nazionale per gli Europei del 2012, e lo farà adesso per i Mondiali. Si occupa di prevenzione degli infortuni e di recupero, conduce analisi che mi sono molto utili. E mi ha anche reso nonno…».
Come si chiama il nipote?
«È una nipotina. Nata il mio stesso giorno: il 19 agosto, sotto il segno del Leone. Si chiama Manuela, come la donna con cui mi sono fidanzato da ragazzo, e che ho perduto quando aveva 45 anni. Abbiamo avuto anche una figlia, Carolina».
La prima cosa che colpisce di Cesare Prandelli sono gli occhi. Grandi e scuri come schermi su cui passano i suoi sentimenti. Per stare vicino a Manuela rinunciò al primo ingaggio da allenatore con una grande squadra, la Roma. Ora ha una nuova compagna di vita, Novella, 42 anni, figlia un po’ ribelle di una grande famiglia fiorentina.
Anche i calciatori sono troppo viziati?
«A volte diventano un po’ troppo personaggi. È cambiato tutto molto in fretta. Boniperti divideva i suoi atleti in quattro fasce: il novellino guadagnava 20 milioni di lire, un campione del mondo arrivava a 60-70 milioni».
Noi abbonati della Juve di Trapattoni ci ricordiamo bene di lei. Com’era quella squadra?
«Tutto tranne una squadra di amici. Ma in campo diventava una falange macedone. Con un unico obiettivo: vincere».
A qualsiasi costo?
«Sì, nel senso che dovevi andare su ogni pallone, perché ogni pallone era quello decisivo della partita. No, nel senso che con Trap e Boniperti bisognava giocare pulito. Ti insegnavano a rispettare l’avversario, a evitare atteggiamenti intimidatori. Non si davano manate o pugni o gomitate. Per questo oggi non convoco in Nazionale chi la domenica prima ha dato una manata o un pugno o una gomitata».
Chiellini però l’ha convocato.
«Ho visto e rivisto l’azione. E non mi è parso un fallo violento».
Com’era il rapporto tra l’Avvocato e Platini?
«L’Avvocato era appassionato e anche competente. Conosceva il calcio europeo e sudamericano, in un’epoca non ancora globale. Il suo rapporto con Platini era strepitoso».
Episodi?
«La domenica Monelli della Fiorentina aveva segnato un gol al Napoli da 40 metri. Il martedì l’Avvocato venne all’allenamento e ci chiese di tirare da centrocampo. Provammo tutti, tranne Platini. Agnelli gli chiese: “Lei non tira?”. E lui: “Troppo facile. Però potrei provare con la porticina degli spogliatoi”. Fu chiamato Bepi, il magazziniere, che aprì. Platini centrò la porta degli spogliatoi da metà campo, tirando di controbalzo. L’Avvocato gli fece il gesto del pollice alzato, e se ne andò. Un’altra volta lo sorprese mentre fumava: “Poi come fa a correre?”. E lui, indicando noi: “Sono loro che corrono per me».
Lei è considerato un buono. Gli allenatori che vanno di moda oggi sono dei duri.
«Nulla è più ridicolo di indossare un abito che non è il tuo. Ognuno ha il proprio carattere. Carlo Ancelotti ha allenato e vinto in Italia, in Inghilterra, in Francia e in Spagna senza cambiare il suo. Io sono molto esigente con i miei giocatori. Si può essere rispettosi e insieme esigenti».
Trapattoni era un duro?
«Più istrione che autoritario. Un grande».
Quanto è rimasto male quando Conte le ha dato del maleducato?
«È vero, ci sono rimasto male. Poi abbiamo chiarito. I dirigenti nel calcio hanno una grande responsabilità. La Nazionale è di tutti».
Storicamente, l’Italia del calcio non ha una sua tifoseria, anzi spesso viene contestata. Lei si è posto il problema di recuperare il rapporto tra la Nazionale e la nazione. Perché? E come ha fatto?
«Mi aveva colpito vedere la grande squadra di Lippi, i campioni del mondo, fischiata senza motivo. La Nazionale è sempre stata molto amata durante le grandi manifestazioni e dimenticata, se non avversata, nel resto del tempo, quando ognuno pensa solo alla propria squadra. Ci siamo posti il problema di ristabilire il rapporto con la gente. Di provare a essere più generosi. Non ci ha pesato, anzi, ci ha arricchito andare a giocare a Quarto e a Rizziconi, su campi sequestrati alla criminalità, o in Emilia dopo il terremoto. Ne ho sempre discusso con i ragazzi, e loro sono venuti volentieri. Anche ad Auschwitz».
Chi sono i leader?
«Chiellini, che è riuscito a conciliare lo sport e lo studio e ha un carattere molto forte: uno che non vuole perdere neppure le partitelle. Pirlo e Buffon, i veterani: passate le cento partite, interpretano ancora la maglia azzurra con l’emozione e l’impegno dell’esordiente. De Rossi. Lo stesso Montolivo».
Leggevate più voi, calciatori nati negli Anni 50, o leggono di più quelli di oggi?
«Più noi, senza dubbio. Soprattutto romanzi gialli, ma anche qualche saggio di storia. Devo dire però che negli ultimi ritiri ho rivisto due o tre calciatori con un libro. Oltre agli iPad e a Kindle. L’ho considerato un segno incoraggiante».
Lei ha fama di domatore dei caratteri impossibili.
«Frottole. Per esempio?».
Cassano. Come mai era uscito dal giro della Nazionale?
«Perché dopo gli Europei avevamo puntato su un progetto tecnico diverso, imperniato su ragazzi giovani. Alcuni sono maturati, anche se non ho potuto portarli tutti al Mondiale: Immobile, Insigne, Destro, Gabbiadini, Zaza. Altri si sono fermati. Il criterio che mi guida è il merito. Cassano è un calciatore che fa giocare bene la squadra nella parte cruciale del campo».
Ma è raccontato come ingestibile e insopportabile.
«Sono favole. Al più, piccoli episodi senza importanza. Antonio Cassano non mi ha mai mancato di rispetto».
E Balotelli?
«Neanche».
Quanto conta nel vostro rapporto il fatto di essere entrambi bresciani?
«Aiuta. A volte gli parlo in dialetto. Ci sono cose che dette in italiano non hanno la stessa efficacia…».
Per esempio?
«Ghet capit o ghet mia capit?».
“Hai capito o no?”, in effetti, non è la stessa cosa.
«Appunto».
Balotelli riuscirà a gestire la tensione del Mondiale?
«È fondamentale trasmettergli il senso che non è l’unico responsabile di quel che accade. La pressione, fisica e psicologica, su calciatori come lui è fortissima. Ma tutti e ventitré i convocati devono essere una risorsa. Nessuno deve diventare un problema».
È vero che quando lei arbitra in allenamento a volte fischia apposta falli che non ci sono?
«Sì. I calciatori devono abituarsi a tutte le situazioni possibili, anche a subire torti».
E se qualcuno reagisce e protesta?
«Rigore contro».
Com’è nata la sua amicizia con Renzi?
«C’era questo ragazzo, già presidente della Provincia, tifosissimo della Fiorentina, che veniva agli allenamenti. Ci mettevamo da parte e parlavamo di tutto. Un giorno mi chiese: “E se mi candidassi sindaco di Firenze?”».
E lei?
«Risposi: “Se te la senti, fallo”».
Prima di Renzi, cosa votava?
«Ho votato a destra, al centro, a sinistra. Ho sempre guardato l’uomo. Da ragazzo mi piaceva Zaccagnini. All’inizio ho creduto in Berlusconi. Poi ho guardato con interesse a Fini. In Veltroni ho trovato passione sportiva e spessore morale».
Ma il suo mentore è frate Elia. Personaggio discusso, gli attribuiscono pure le stigmate.
«È un personaggio molto particolare, come tutte le persone fuori dal comune. Mi emoziono solo a parlarne».
Quale calcio vedremo al Mondiale? Non rischiamo di annoiarci un po’? Tutte le squadra ormai giocano quasi allo stesso modo.
«Non è vero. Prenda le quattro arrivate quest’anno in semifinale di Champions. Ognuna ha il suo gioco. Guardiola ha riproposto a Monaco il modulo del suo Barcellona. Il Real per far convivere Ronaldo, Bale, Benzema e Di Maria deve crearsi un po’ di spazio davanti. Il Chelsea di Mourinho, in teoria inferiore, rimedia coprendosi bene. L’Atletico di Simeone ha pressing e qualità».
Non si può cambiare nulla del regolamento per vivacizzare le partite e vedere qualche gol in più? Per esempio le norme del fuorigioco?
«No, il fuorigioco è la regola fondamentale di questo sport, come dico sempre a Novella, la mia compagna (sorride). Semmai sarebbe meglio battere le rimesse laterali con i piedi. Oggi si preferisce buttare il pallone fuori. Se ogni rimessa diventasse di fatto una punizione, il pallone invece di gettarlo via lo devi giocare».
Ma come mai i calciatori sono tutti tatuati come marinai o guerrieri?
«Non tutti: Montolivo e Gilardino non sono tatuati. Comunque, è un fatto generazionale, come i capelli lunghi per noi della generazione post ’68. Quante volte mi hanno detto: “Devi tagliarteli. All’umberta”. Invece li porto un po’ lunghi ancora adesso».