Letizia Gabaglio, L’Espresso 6/6/2014, 6 giugno 2014
GALEOTTO FU IL CERVELLO
Non è la trama di un film e neanche il plot di una crimefiction. Quella di Domenico Mattiello è una storia vera, accaduta in Italia. Stimato pediatra, l’uomo lavora in una scuola della provincia di Vicenza, e ha sempre svolto la sua professione con impegno, cura, disponibilità. Poi, un bel giorno, qualcosa cambia: il medico comincia a rendersi odioso, fino a commettere uno dei reati più orribili, a molestare alcune delle sue piccole pazienti. Ma lo fa in maniera plateale, così che quando le vittime lo accusano, le infermiere e il personale della scuola riferiscono episodi che avvalorano le parole delle bambine. Mattiello viene accusato, arrestato, processato. I periti chiamati a valutare il suo stato mentale però si accorgono di qualcosa: «Ci siamo trovati di fronte a un uomo che aveva delle anomalie neurologiche evidenti, come il pianto spastico. All’improvviso, senza motivi, si metteva a piangere per poi ritornare in sé come se nulla fosse», racconta Pietro Pietrini, psichiatra, ordinario di Biochimica e Biologia Molecolare Clinica all’Università degli Studi di Pisa, che insieme a Giuseppe Sartori, ordinario di Psicologia fisiologica e Psicobiologia all’Università di Padova, ha curato la perizia.
Gli specialisti vogliono capirne di più, e fanno degli accertamenti: il pediatra scopre così di avere un tumore di 4 centimetri che gli preme sulla corteccia orbitofrontale. Un cordoma del clivus, una rara forma di cancro. Per i periti di parte è questa la causa del cambiamento di personalità del pediatra: «La moglie ci ha raccontato che da alcuni mesi aveva cominciato ad agire in maniera infantile, magari divertendosi a rubare cose di poco conto, oppure in maniera irascibile», dice ancora Pietrini: «Una frattura comportamentale che doveva avere una ragione specifica». Durante il dibattimento i periti dettagliano le loro ragioni: la pedofilia di Mattiello può essere spiegata a partire dal tumore che, premendo su specifiche aree del cervello legate alla gestione degli impulsi e del comportamento sessuale, ha indotto il paziente a compiere azioni a lui estranee prima del formarsi della massa tumorale. E per questo non può essere considerato pienamente responsabile di ciò che ha fatto.
Il giudice però non accetta la tesi e non riconosce il nesso di causa effetto fra la malattia e il comportamento. Era il 2013. Il pediatra ricorse in appello e la sentenza è arrivata poche settimane fa: anche riconoscendo alcune attenuanti, di nuovo il tumore non viene considerato "responsabile" per ciò che il medico ha commesso.
IN PRINCIPIO FU IL MAOA
Il caso di Vicenza è solo l’ultimo di una serie di processi in cui le neuroscienze sono state chiamate in causa. E anche l’unico in cui la prova neurologica non è stata valutata positivamente. Negli altri casi in cui sono state chiamate in causa le condizioni neurologiche dell’imputato, i giudici ne hanno tenuto conto. E L’Italia ha infatti un primato in questa materia: la cosiddetta "sentenza di Trieste", la prima in Europa in cui la pena è stata ridotta sulla base della presenza di un’alterazione genetica che predispone al comportamento omicida, la mutazione del MAOA. Questo gene codifica per l’enzima monoaminoossidasi A, coinvolto nella regolazione dei livelli di serotonina, norepinefrina e dopamina nel cervello, neurotrasmettitori fondamentali per la gestione degli impulsi.
È il 2007, Abdelmalek Bayout cammina per strada a Udine quando viene apostrofato come "omosessuale" da un gruppo di giovani poiché è truccato per via di una festività religiosa. Lui si allontana, va in un negozio, compra un coltello, torna a cercare gli uomini che lo hanno insultato e ne uccide uno. Accusato di omicidio in primo grado, in appello ha la pena ridotta in virtù del suo complesso quadro psicologico, neurologico e genetico.
«Le nostre perizie hanno dimostrato che l’accusato era affetto da psicosi con idee di persecuzione, che per questo era già stato ricoverato, che aveva difficoltà di integrazione e relazioni sociali, che da piccolo aveva subito abusi di tipo psicologico», spiega Pietrini che è stato perito anche in questo caso insieme a Sartori: «In più le analisi genetiche hanno svelato la presenza di diverse mutazioni che alcuni studi hanno dimostrato essere legate a un rischio maggiore di comportamento antisociale». Il gene MAOA, infatti, è presente nel patrimonio genetico di tutti. Più precisamente, dal momento che si trova sul cromosoma X, le donne lo hanno in doppia copia, mentre i maschi ne hanno solo una. Per questo negli uomini le mutazioni sono più gravi: non c’è il gene paracadute che può bilanciare quello mutato. «Per i maschi è un fattore predisponente al comportamento aggressivo e violento, in particolare negli individui che siano stati cresciuti in contesti sfavorevoli», sottolinea Pietrini: «Un fattore di rischio paragonabile al diabete o all’ipertensione per lo sviluppo di malattie cardiovascolari». Infatti, uno studio che ha considerato 27 ricerche su questo gene ha messo bene in evidenza che si tratta di un fattore di rischio importante, ma non sufficiente: in tutti i casi presi in considerazione sono stati i maltrattamenti subiti durante l’infanzia a influenzare in maniera determinante lo sviluppo di gesti particolarmente aggressivi.
SETTE GENI DIFFICILI
Finora sono stati individuati almeno sette geni associati al comportamento violento sia negli umani sia in altre specie animali e capaci di modificare la struttura del cervello: il più famoso è il MAOA, ma ci sono anche 5HTT, BDNF, NOTCH4, NCAM, dx, e Pet-1-ETS. Seguendo l’idea che si passi "dai geni, al cervello, al comportamento antisociale", sostenuta da Adrian Raine, del dipartimento di Criminologia, Psichiatria e Psicologia dell’Università della Pennsylvania, in un rapporto apparso su "Antisocial Behaviour", i ricercatori sono andati a vedere cosa succede nel cervello delle persone che presentano queste mutazioni. Ebbene, sempre nel caso di MAOA, i maschi che hanno la variante più comune hanno un riduzione del 3 per cento nel volume di amigdala, cingolato anteriore e corteccia prefrontale, strutture cerebrali coinvolte nella gestione delle emozioni, che infatti nelle persone con problemi di aggressività sono in qualche modo compromesse.
«Alcuni studi condotti con le moderne tecniche di imaging cerebrale dimostrano chiaramente che nelle persone violente, per esempio in chi ha commesso un omicidio, l’attivazione di una parte della corteccia prefrontale è inferiore alla norma», spiega Fiorenzo Conti, direttore del Centro di Neurobiologia dell’invecchiamento dell’Inrca di Ancona e presidente-eletto della Società italiana di Neuroscienze intervenuto a un seminario tenuto a Trieste al Master in Comunicazione della Scienza "Franco Prattico" della Sissa. La corteccia prefrontale è cruciale per la gestione delle nostre azioni: è una specie di "freno di emergenza", che media le pulsioni che arrivano direttamente dal sistema limbico.
Ma le alterazioni a livello genetico e funzionale non bastano per spiegare la complessità di un gesto criminale: «La sentenza di Trieste riconosce l’importanza del fattore genetico ma non riduce la sua decisione solo a quello: in accordo con la letteratura scientifica il giudice afferma che la biologia è rilevante solo dal momento che è comprovato anche il fattore ambientale», continua Conti. L’imputato non ha solo una mutazione ma ha vissuto un’infanzia di disagi e abusi: è il mix a renderlo meno colpevole di ciò che ha commesso.
«Il fatto che si aggiungano degli elementi di conoscenza sul processo di volizione delle persone non può che essere positivo», afferma Amedeo Santosuosso, giudice della Corte di Appello di Milano e docente di Diritto, Scienza, Nuove tecnologie all’Università di Pavia: «Il processo ha tra i suoi obiettivi quello di far emergere le caratteristiche dell’imputato: prima lo si faceva solo sulla base della storia biografica, oggi si affiancano dati di tipo organico, ma lo schema complessivo della responsabilità penale non cambia». Sempre nel caso di Trieste, quindi, non si tratta di riconoscere la presenza di un gene "guerriero", come è stato chiamato, ma la capacità ridotta dell’imputato di resistere a una sollecitazione di tipo violento. Certo non tutti i giudici sono ugualmente ben disposti ad accettare che il dibattimento si sposti su un terreno neuroscientifico, ma anche grazie alle Scuole organizzate dall’Associazione Europa per le Neuroscienze e il Diritto, di cui Santosuosso è presidente, i giuristi stanno cominciando a padroneggiare la materia.
NON SOLO MOLECOLE
Le sentenze che riconoscono il valore della prova neuroscientifica pongono infatti un problema di ordine politico più ampio: se una persona ha la mutazione MAOA, ed è quindi più probabile che agisca violentemente, in che modo può essere recuperato? «Il fattore genetico o neurofisiologico sono solo alcuni degli elementi in gioco, sono importanti perché ci aiutano a capire meglio, ma non esauriscono la personalità dell’imputato», sottolinea ancora Santosuosso: «Sono gli altri pezzi del puzzle su cui posiamo agire: la storia personale, l’educazione, l’ambiente in cui la persona è vissuta e vive. Agendo su questi i risultati si ottengono, con o senza variante genetica».
Lo testimonia bene la storia di Stefania Albertani, una giovane donna della provincia di Como che nel 2009 ha avvelenato e poi bruciato sua sorella e tentato di uccidere sua madre. Processata, il giudice ha riconosciuto la sua infermità mentale sulla base di quello che i periti avevano dimostrato: «Dalla risonanza magnetica funzionale risultava evidente che la signora ha una densità neuronale inferiore alla media nella zona del cingolo e della corteccia prefrontale», spiega Pietrini, che sempre insieme a Sartori ha curato anche questo caso.
Non siamo quindi in presenza di una mutazione genetica, ma di una differenza morfologica che le impedisce di capire la gravità del gesto commesso. «La riduzione della sostanza grigia in questa area del cervello crea un deficit nel meccanismo che ci fa provare empatia, che ci fa solidarizzare con ciò che vediamo», spiega ancora l’esperto. Il giudice accoglie questa spiegazione, e si pone anche la domanda conseguente: qual è la pena più giusta per Stefania? «È inutile punire se il condannato non apprezza il valore sociale della pena», sottolinea Pietrini. Così il giudice ha ordinato che la giovane donna fosse condannata a seguire un percorso riabilitativo psicoterapeutico e farmacologico per costruirsi una personalità sociale. Una pena che dovrebbe obbligarla a prendere coscienza dell’enormità dell’atto commesso, nel rispetto del nostro Codice Penale che indica punizione e riabilitazione come obiettivi della condanna.