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 2014  giugno 06 Venerdì calendario

POTERE AI CARTOON

[Colloquio Con Ari Folman] –

In una strada dove l’asfalto è sostituito da un prato rigoglioso e i palazzi sono avviluppati da piante e fiori, la versione animata di Robin Wright fende una folla coloratissima e bizzarra: lo "Straniero senza nome" (cioè Clint Eastwood nei western di Sergio Leone) parla con Elvis Presley, Jimi Hendrix con Giovanna d’Arco. Liz Taylor nelle vesti di Cleopatra passa tra Gesù Cristo, Budda, Ganesh e Horus, mentre dietro un’animazione del celeberrimo "Fils de l’homme" di Magritte (l’uomo in bombetta con una mela al posto del volto) si scorge un attore porno degli anni Settanta che palpeggia soddisfatto Marilyn Monroe.
Benvenuti nel mondo lisergico di "The Congress", "live-action" (cioè mix di film normale e cartoon) interpretato, oltre che da Robin Wright, da Harvey Keitel e Paul Giamatti. Il film, scelto per l’apertura della Quinzaine de Réalizateurs a Cannes 2013 e premiato agli European Film Awards, esce il 12 giugno nelle nostre sale (distribuito da Wider Film). E segna il ritorno dell’israeliano Ari Folman, già nominato all’Oscar 2009 del miglior film straniero per "Valzer con Bashir", ricostruzione animata della sua esperienza nell’invasione del Libano nel 1982 e del massacro di Sabra e Shatila, vissuti quando era un soldato diciannovenne. Ari Folman racconta, in esclusiva per "l’Espresso", i segreti del film.
Folman, nel 1996 ha diretto un film "live-action", "Clara Hakedosha"; poi c’è stato il documentario animato "Valzer con Bashir". Ora, con "The Congress", realizza un film per metà in animazione. Si sente un regista di attori o di cartoon?
«Sono un regista e basta. Non accetto l’idea di essere limitato nelle mie possibilità espressive. È ovvio che amo molto l’animazione, però va anche detto che il cartooning è lento e frustrante: per realizzare un film "dal vero", in genere, te la cavi in meno di un anno, mentre per un lungometraggio animato devi spendere cinque o sei anni della vita, e può diventare un incubo».
"Valzer con Bashir", oltre ad essere autobiografico, era decisamente politico. Lei che definizione darebbe di "The Congress"?
«Direi che è una "social-fiction" politica, ma soprattutto un omaggio all’animazione che ho più amato: dai cartoon dei fratelli Fleischer degli anni Trenta, con la meravigliosa morbidezza grafica di Betty Boop e Braccio di Ferro, fino all’underground di Ralph Bakshi e la psichedelia dello "Yellow Submarine" di George Dunning. Tutta la sequenza della trasformazione del mondo reale in quello animato, quando Robin prende la droga per trasformarsi nella versione animata del proprio personaggio, è mutuata da lì. È un tributo all’animazione "vecchio stile" e ai suoi maestri, realizzato senza computer grafica».
Questo ha complicato la produzione?
«Enormemente: avevo 225 animatori di otto nazioni che lavoravano per me con solo carta e matita e dovevo riuscire a coordinarli in modo che il loro stile mantenesse coerenza estetica e che le versioni animate dei protagonisti, realizzate completamente a mano, rispettassero il linguaggio corporeo dell’originale».
È vero che, inizialmente, aveva pensato a Cate Blanchett per la parte dell’attrice in declino disposta a vendere la propria identità cinematografica a uno studio che potrà usare il suo duplicato digitale?
«In effetti, avevo scritto la prima stesura della sceneggiatura per Cate Blanchett e contavo di proporgliela quando sono stato a Hollywood per gli Oscar 2009, poi però ho incontrato Robin».
Cosa le ha fatto cambiare idea?
«Cate è perfetta, "troppo" perfetta, oserei dire. Il suo valore di attrice è indiscutibile ma, per questo, mi sono reso conto che per il pubblico sarebbe stato difficile vederla come una star del cinema in crisi, emarginata dal sistema. Robin, pur essendo altrettanto brava, ha una storia personale che le ha lasciato una certa malinconia dello sguardo e rende credibile l’idea di una sua fragilità, centrale al tema del film. Fin dal primo momento ho capito che Robin doveva essere la mia protagonista e, per mia fortuna, ha accettato di partire con me in questo viaggio creativo».
È stato un percorso lungo?
«Terribilmente lungo. Avevo iniziato a lavorare alla sceneggiatura nel 2008 e, se vogliamo andare alle origini, ero stato intrigato da un romanzo di Stanislaw Lem già quando l’ho letto la prima volta a sedici anni, "Il congresso di futurologia". Una volta che Robin ha accettato di partecipare al film abbiamo dovuto riscriverne insieme buona parte, per inserire riferimenti alla sua vita. Poi ho dovuto racimolare i fondi».
E per le riprese come è andata?
«Nel 2011, in poco più di due mesi, ho girato la parte "live action" negli Stati Uniti, ma per completare quell’ora di animazione ci sono voluti due anni e mezzo e il coordinamento del lavoro è stato veramente difficoltoso. Il fatto è che, se non sei Hayao Miyazaki, nessuno vuole che tu realizzi un film in animazione tradizionale, tutti ormai si aspettano la computer grafica. Per questo ho dovuto cercare finanziatori in tanti paesi diversi».
La computer grafica non la sopporta proprio?
«Non è questione di tecnica: ma non si deve diventare schiavi di un mezzo che può essere utile, se e quando si realizzano capolavori come "Gli Incredibili", "Up", o "Wall-E", ma la cui "facilità" ha generato un’infinità di opere mediocri, prive della poetica dell’animazione classica».
E ora cosa prepara: un film di animazione, o dal vero?
«Sto lavorado a un film animato che s’intitola "Where’s Anne Frank". La Anne Frank Foundation mi ha dato accesso, oltre al diario di Anne, a tutti i loro materiali in archivio, un vero tesoro, una documentazione sconfinata. La mia idea è di realizzare un film a tecnica mista, con i fondali tridimensionali animati in stop-motion, a ricostruire i luoghi della sua breve vita, su cui si muovono i personaggi, disegnati come sempre in 2D. I primi test di animazione che abbiamo fatto sono molto efficaci, anche se ci vorrà ancora tantissimo tempo prima che il film sia pronto».
Tornando a "The congress", lei ha parlato del legame con il romanzo di Lem, però il film se ne discosta: lo scienziato Ijon Tichy qui è un’attrice problematica e non c’è la satira dei sistemi socialisti.
«Ammetto che la prima parte del film non ha nulla a che vedere con il romanzo e che la seconda, pur ambientata in un albergo, come nel testo di Lem, se ne discosta molto. Volevo mostrare la mia visione del futuro che, ovviamente, è influenzata dalle mie letture e quindi da Lem: lui ha anticipato la creazione di una realtà virtuale e l’uso globale degli allucinogeni. Ho trasformato la dittatura chimica del romanzo nella dittatura dello show business perché, non avendo vissuto nei regimi socialisti, non mi interessava parlare di una dittatura politica, ma di quella del sistema hollywoodiano, controllato dai grandi Studi. La droga, nel film, è un’allegoria: vuoi vivere nella verità, o preferisci dipendere da soldi, sesso, fama? Inserire il tema dell’invecchiamento e fare della protagonista un’attrice in declino è stata una conseguenza inevitabile».
In questo contesto cosa c’entra l’apparizione di un divo del porno come Ron Jeremy, nel mondo virtuale della seconda parte?
«La presenza di Jeremy è un gioco, un rimando a "Valzer con Bashir". Là appariva il suo clone animato nel film porno guardato da un soldato, tanto che avevamo anche ringraziato Jeremy nei titoli di coda. Ho voluto riprenderlo anche qui, insieme a tante altre citazioni: tra vari omaggi cinematografici "nobili", ce n’è anche uno ai suoi film».