Giovanni Tizian, L’Espresso 6/6/2014, 6 giugno 2014
E ORA GIUSTIZIA
[Colloquio Con Andrea Orlando] –
Una riforma globale della Giustizia, con un programma da presentare entro fine mese. Un piano che prevede di mettere mano alle regole del Csm, l’organo di autogoverno dei magistrati «perché merito e capacità personali dovranno contare più dell’appartenenza a una corrente». Non sarà facile. Ambizioni alte sono destinate a incontrare ostacoli insidiosi.
L’approccio di Andrea Orlando è quello di un politico che cerca di dare forma organica a un settore stravolto da vent’anni di leggi ad personam, da conflitti dilanianti e dall’inefficienza del sistema. Il sogno di una Giustizia che «deve diventare una risorsa e non un freno alla competitività del Paese». Nelle parole del ministro, 45 anni, c’è voglia di normalità. La stessa che da ligure cerca di trasmettere cercando di parlare di cose concrete e non lasciandosi distrarre dalla maestosità dell’ufficio del guardasigilli, tanto che alla grande scrivania in legno che fu di Palmiro Togliatti, preferisce il tavolino accanto, sul quale sta a malapena il computer portatile. Basso profilo in tutto. Anche nella protezione. Ha chiesto infatti di ridurre gli uomini della scorta. Ma il prefetto non l’ha accontentato.
Adesso che Berlusconi è uscito di scena, si può parlare di riforma in un clima più disteso, senza i toni esasperati degli ultimi anni?
«Quel periodo lo stiamo superando. Il metro di misura delle riforme non deve più essere se giovano a Tizio o danneggiano Caio. Ci sono le condizioni per entrare in una fase in cui si possono vedere gli impatti sul sistema. Cosa che può emergere soltanto in un modo: se si rimettono al tavolo tutti gli interessati. Perché, mentre si consumava lo scontro su Berlusconi, se ne consumava un altro meno rumoroso, ma che nel pianeta giustizia ha contato molto: quello tra avvocatura e magistratura. Nel civile questa frattura è stata ricomposta. Abbiamo fatto sedere allo stesso tavolo avvocati e magistrati. Ecco, credo che quel periodo e quei toni si possano archiviare definitivamente solo se si supera il derby, meno visibile, tra avvocatura e magistratura».
Presenterete un documento finale. Quando?
«Entro fine mese illustreremo una road map. Come è avvenuto per il documento sulla riforma della pubblica amministrazione. Alcuni punti saranno già articolati altri dovranno individueranno gli obiettivi».
Dopo due anni e mezzo di ministri tecnici, un politico. Che tipo di impronta politica vuole dare alla Giustizia?
«È necessario riportare l’attenzione sul quei lati oscuri del pianeta giustizia ancora poco esplorati perché meno interessanti dal punto di vista mediatico rispetto al rapporto politica-magistratura. Mi riferisco per esempio alla parte che riguarda l’efficienza del sistema e al processo civile. Tutti ambiti che hanno un forte impatto sul principio di legalità. Non solo codici, dunque, ma anche tecnologie, macchine fotocopiatrici, computer, personale, formazione e innovazione organizzativa. Questi sono concretamente gli ingranaggi su cui va avanti il processo penale e civile».
Come pensa di procedere?
«Faccio un esempio: il 30 giugno partirà il processo civile telematico. Passare dal cartaceo al telematico inciderà profondamente sul funzionamento del processo. Ma questo è un tema che attiene alla questione delle risorse, della formazione e dell’organico. Vorremmo che la Giustizia diventasse una risorsa per il Paese, che se funziona bene crea ricchezza e aumenta la competitività».
Poi c’è il nodo del Csm. Intende proporre una riforma dell’organo di autogoverno delle toghe?
«Raccolgo un bilancio: la legge approvata dal centrodestra che avrebbe dovuto ridurre le correnti all’interno del Consiglio superiore della magistratura non ha prodotto risultati. Dobbiamo fare in modo che nella scelta dei magistrati del Csm vengano valorizzate di più le capacità, le professionalità e le personalità, piuttosto che l’appartenenza a una o all’altra corrente. E questo lavoro va fatto confrontandosi con le stesse organizzazioni delle toghe. Che non considero un male in sé. Diventano un male quando l’appartenenza sopprime gli elementi di valutazione oggettiva».
Non teme di sentirsi accusare di mettere a rischio il pluralismo all’interno del Consiglio?
«Il nostro sistema presuppone un pluralismo. Ma non può essere tutto legato all’appartenenza. Bisogna trovare un sistema che tenga insieme l’esigenza del pluralismo e la valorizzazione delle persone, delle capacità. Premiare il merito più che l’appartenenza. Ogni giudice, ogni pm, è di per sé un manifesto programmatico, perché ha un vissuto, una carriera, un lavoro che ha svolto dirigendo questo o quello ufficio. Rappresenta cioè quello che ha fatto nella sua professione. Il pluralismo va coniugato con la scelta della persona e dell’individuo».
Sa che non sarà immune da critiche e dovrà fare i conti con l’associazione nazionale magistrati e con le correnti?
«Ho cercato sempre di enfatizzare l’esigenza del confronto. A mio avviso le leggi reggono l’impatto parlamentare e poi con la realtà se prima sono state oggetto di un adeguato dialogo e approfondimento. L’idea di far veloce può portare a norme che non tengono il campo. Mi ha colpito molto il fatto che quasi tutti gli interventi durante il plenum del Csm concordavano su una riforma del sistema elettorale dell’organo. Naturalmente so bene che essere d’accordo per cambiare la legge non vuol dire essere d’accordo su come cambiarla. Però questo fa cadere molti alibi. E dimostra che questo passaggio non è una volontà della politica di condizionare l’autogoverno, ma è il frutto di una riflessione che l’autogoverno stesso ha fatto in modo unitario. La sfida che abbiamo di fronte è cambiare mantenendo aperto il confronto».
Che tempi si è dato?
«Come ho detto, entro il mese di giugno presenteremo una serie di interventi complessivi. Si tratta poi di stabilire diverse velocità e il diverso grado di dettaglio con il quale portare avanti le proposte. Per quanto riguarda il Csm, è necessario, proprio perché frutto di un confronto, un disegno di legge. Comunque in tempi brevi, spero entro la fine dell’anno, si può arrivare a una riforma».
A Milano, lo scontro tra pm è una ferita aperta alla credibilità della magistratura. È possibile prevenire i contrasti interni alle procure? E perché nonostante un problema di efficienza e credibilità, che è sotto gli occhi di tutti, la magistratura non è in grado di autoriformarsi?
«Ogni vicenda ha una sua dinamica diversa. Non ci sono ricette universali. Per questo vorrei, pur riservandomi tutte le prerogative che ha il ministro di intervento in questo campo, attendere la valutazione dell’organo di autogoverno. L’esercizio della generalizzazione rischia di portare altro discredito».
C’è un problema però?
«L’attività della sezione disciplinare del Csm è stata più intensa rispetto al passato. Ora si tratta di sistematizzare, insieme alla categoria, il lavoro fatto. E la riforma del sistema elettorale del Consiglio può essere l’occasione per distinguere meglio i ruoli e le funzioni all’interno dell’organo di autogoverno. Oggi chi giudica le toghe nomina anche i magistrati all’interno delle procure e dei tribunali. Su questo credo sia necessaria una riflessione. Devo anche dire però che la magistratura nel corso di questi anni ha sviluppato un sistema di anticorpi più forte».
Il 70 per cento dei processi penali si prescrive. A Roma sono state stabilite corsie preferenziali per i reati di maggior importanza. Una soluzione che anche altre procure hanno adottato. Abolendo di fatto l’obbligatorietà dell’azione penale. Ma se l’obbligo di procedere è virtuale, ha senso ha lasciare tutto com’è?
«Quando incontro i procuratori la prima questione che mi pongono è la scarsità del personale amministrativo. C’è una forte relazione, molto più di quanto non si dica, tra questo aspetto e la prescrizione dei processi. Va preservata e rafforzata l’obbligatorietà. Per questo si tratta di intervenire con un opera di razionalizzazione su questo fronte, e di rivedere l’istituto della prescrizione. Che non è una abnormità del nostro sistema, ma lo diventa a causa della inefficienza del processo. La prescrizione non esiste solo in Italia, negli altri paesi però i processi, nel loro sviluppo, sono maggiormente efficienti».
D’accordo, ma da noi la situazione è drammatica. La macchina spesso gira a vuoto.
«Si tratta di utilizzare altre forme di sanzioni per reati di minore allarme sociale. Da questo punto di vista c’è una delega sulla depenalizzazione che il Parlamento ha già dato, che va esercitata con intensità. E poi c’è un lavoro che dobbiamo fare di semplificazione e snellimento del processo sul quale si è intervenuti in modo disorganico e accidentale creando più problemi che non soluzioni. Dal 1987 in poi non si contano più gli interventi che il legislatore ha fatto per rimodificare le scelte che aveva già compiuto. Questo ha tolto organicità al sistema. E ha creato passaggi a vuoto, contraddizioni nel processo stesso. La questione è che le norme sostanziali sono importanti, ma altrettanto fondamentali sono le risorse. I processi non vanno avanti perché mancano i registratori per i verbali, mancano i cancellieri, oppure perché ci sono problemi nella trascrizione. Fatti concreti, materiali, frutto dell’organizzazione, che pesano tanto quanto le norme».
Falso in bilancio. È l’anticamera della corruzione. Tanti chiedono che torni a essere reato. Qual è il suo piano?
«Stiamo provando a costruire un impianto organico di misure per contrastare la criminalità economica. Tra queste c’è il falso in bilancio e l’introduzione di regole processuali che consentano di evitare la morte del processo per prescrizione. Noi abbiamo due falle - falso in bilancio e autoriciclaggio - ma nel complesso un sistema molto evoluto di contrasto sia alla corruzione che alla criminalità mafiosa. La criminalità economica si colloca a cavallo tra corruzione e mafia. Abbiamo presentato il disegno di legge che prevede una sistematizzazione di questi strumenti. Ora si tratta di fare presto perché quei due mattoni ancora mancano. Le ipotesi sul falso in bilancio ci sono. Non c’è un accordo sul come farlo, ma tutti concordano che è necessario. È già un punto di partenza».
Il libro del professor Giovanni Fiandaca e dello storico Salvatore Lupo ha fatto discutere. In sintesi sostengono che la trattativa Stato-Mafia non esiste come reato. È stato letto come una diversa visione del modo di fare antimafia. Il Pd con la candidatura alle europee di Fiandaca ha sposato questa linea?
«Non credo si tratti di sposare una tesi o una linea. Bisogna tenere assieme il fronte dell’antimafia. Senza affidare a nessuno il monopolio della verità. In questo senso mi batterei fino in fondo per difendere posizioni che hanno rivendicato il diritto a svelare le complicità istituzionali, non esaurirei a quello però la lotta alla mafia. Oggi non c’è bisogno di dividersi, ma di chiedere uno sforzo unitario a tutte le parti politiche. In passato abbiamo aspettato vicende luttuose per stare insieme. Invece per la prima volta abbiamo l’opportunità di restare uniti contro un nemico comune anche in assenza di sangue versato».
Su "l’Espresso" della settimana scorsa, don Luigi Ciotti ha lanciato una provocazione: basta con l’antimafia delle etichette, meglio parlare di responsabilità. Di che antimafia abbiamo bisogno oggi?
«Condivido l’idea di lasciare da parte le etichette. E il tema della responsabilità mi sembra cruciale nella storia del nostro Paese. Parlerei più in generale di senso dello Stato. Se ci pensiamo, la mafia ha proliferato di fronte a una debolezza dello Stato. Le organizzazioni non sono anti-Stato ma parassiti che si sviluppano nell’immobilità delle istituzioni. La mafia ha bisogno di uno Stato debole. Affermare il senso dello Stato, anche quando è retto da persone di cui non si condividono le idee, è la risposta migliore che si può dare alla mafia».
Nei casi ripetuti di corruzione, non vede un’assenza della politica, che non riesce a prevenire?
«La politica, intesa come legislatore, a mio avviso, ha fatto molto. Sulla vicenda di Milano Expo per esempio non vedo la corruzione dei partiti come avvenne negli anni Novanta ma l’assenza di trasparenza della pubblica amministrazione. Ci troviamo di fronte a un sistema economico che evita la strada della competizione, che sceglie la strada della raccomandazione, che usa ancora dei protagonisti della prima Repubblica, e li usa come mediatori tra interessi privati e pezzi della burocrazia».
Quindi?
«Forse è arrivato il momento di coinvolgere i cittadini nelle scelte che riguardano i territori. E questo lo devono fare le associazioni e i partiti. È un fenomeno che chiama le forze politiche a un diverso ruolo e a un diverso tipo di responsabilità. Devono organizzare la partecipazione. Mi spiego: sulle grandi scelte bisogna fare in modo che non ci sia soltanto la delibera o il decreto, ma anche la capacità delle forze politiche di chiamare i cittadini a discutere. Una vicenda come Expo o le grandi opere infrastrutturali possono diventare anche momenti di grande partecipazione democratica. E i partiti, secondo la Costituzione, dovrebbero fare questo. Così facendo consentirebbero di tenere molto di più i riflettori accesi su diversi passaggi che inevitabilmente deve svolgere la burocrazia. Questa partecipazione non è che risolve di per sé ogni cosa. Ma rende molto più difficile gli spazi di manovra di chi ha bisogno di opacità per muoversi. Se tutto invece viene fatto in via emergenziale e sulla base di una presunta neutralità tecnocratica allora gli interessi particolari e illegittimi troveranno sempre spazio».