Anna Franco, Il Messaggero 6/6/2014, 6 giugno 2014
ABITI FIRMATI SARTORIA DI SAN VITTORE
I PROGETTI
L’articolo 27 della Costituzione italiana cita testualmente che le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato». Una norma meritevole, ma che rischia di essere poco incisiva quando la condanna è detentiva e consiste in una sequenza di giorni uguali, nel buio di una cella anonima. I giudici sanno bene che quel principio sancito dalla nostra Carta rimane spesso un’utopia e forse anche per questo alcuni magistrati, soprattutto quelli di recente nomina, hanno deciso di ordinare le loro toghe non presso le normali boutique forensi, ma alla Sartoria San Vittore, fondata dalla cooperativa Alice per insegnare a cucire e avviare al lavoro dell’ago e del filo le detenute del carcere di San Vittore, appunto, e di Bollate.
«Per me è divertente e interessante - racconta Maria, 48 anni, ucraina, ex detenuta nel carcere milanese per furto e ora sarta nel laboratorio esterno dell’associazione - creare toghe in fresco lana con rifiniture in raso nero per persone che reputo importanti per il Paese». Nessun rancore, quindi, per chi le ha processate e condannate, ma anche tanto amore per la propria famiglia e il futuro: « È stata una gioia confezionare il completino per la mia nipotina - racconta sempre Maria, neo-nonna - Mi rende felice creare qualcosa dal nulla, solo con le mie mani e la mia esperienza».
LE COLLEZIONI
L’esercizio e l’apprendimento, del resto, sono una costante presso la Sartoria San Vittore, che produce su ordinazione anche abiti da sposa, oltre che collezioni stagionali di pret-a-porter e biancheria per la casa. «Chi lavora con noi deve essere sottoposta a una pena non troppo breve, avere predisposizione per il cucito, superare un esame pratico e, poi, un’ulteriore valutazione dopo un mese di insegnamento. Dopo altri sei mesi inizia la vera e propria attività», racconta Luisa Della Morte, presidente della cooperativa Alice, fondata nel 1992 in carcere e oggi presente anche con un laboratorio in città, dove lavorano ex detenute e chi è agli arresti domiciliari.
Al reinserimento nella società pensa anche il progetto Fumne Independent, de La Casa di Pinocchio, associazione che opera nelle carceri torinesi. «Io e la mia socia Sara Battaglino - racconta la fondatrice Monica Cristina Gallo - cerchiamo di accompagnare le nostre donne nell’attività esterna, anche se la missione principale rimane ridare loro dignità già dietro le sbarre, dalle quali creatività e femminilità non devono essere frenate». Non è un caso, del resto, che le carcerate in questione, dopo l’inizio del corso abbiano preso a curarsi di più e a vestirsi meglio, anche in concomitanza degli incontri che la cooperativa crea periodicamente con donne libere, pronte a imparare come usare l’ago.
I DESIGNER
A una piccola boutique esterna punta anche il brand Neroluce, fondato dall’associazione Gruppo Idee con la collaborazione delle insegnanti della scuola di moda Accademia Altieri e della stilista Sabrina Micucci. «Ci piaceva l’idea di far sentire nuovamente donne le detenute del carcere di Rebibbia, costrette spesso in tute informi - racconta la presidente Zarina Chiarenza - Così, abbiamo portato i designer nel carcere e circa due anni fa le abbiamo trasformate in modelle, ma si trattava di un evento una tantum. Così abbiamo proposto un corso di sartoria, dove lavorano 10 donne dai 25 ai 60 anni, che sono riuscite a produrre anche tutti i capi per una sfilata».
IL CONFRONTO
La fiducia reciproca e un ambiente sereno fanno da sfondo alla voglia di produrre, ogni giorno, socializzando e confrontandosi. Un dialogo che spera di costruire anche la recente partnership tra l’associazione Made in Carcere, in forza a Lecce, e l’Accademia Italiana. Quest’ultima, sulla base di un’intuizione del suo direttore Vincenzo Giubba, proporrà ai laureandi in fashion design di dare suggerimenti e di ideare modelli di accessori, ma anche di abbigliamento, che possano essere realizzati dalle detenute, in un continuo scambio tra interno ed esterno.