Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 06 Venerdì calendario

UNA MAZZETTA PER OGNI APPALTO L’ALTRA MAPPA D’ITALIA LE REGOLE INEFFICACI NELLA GIUNGLA DI LEGGI E SONO TROPPI I SOGGETTI CHE POSSONO AFFIDARE I CANTIERI


ROMA — «Arriva la legge anti-tangenti», titolava l’Ansa il 23 dicembre 1992. Senza immaginare quanto ottimismo fosse racchiuso in quelle parole. Eravamo in piena bufera di Tangentopoli e il ministro dei Lavori pubblici Francesco Merloni, a cui il premier Giuliano Amato aveva affidato un compito da far tremare le vene ai polsi, voleva rivoluzionare il sistema degli appalti. Procedure più rigorose e controlli inflessibili. Frastornati dall’overdose di scandali, gli italiani se l’aspettavano. La legge «anti-tangenti» venne approvata l’11 febbraio 1994, sotto il consueto diluvio di inchieste per corruzione. Senza però l’articolo decisivo: quello che riduceva il numero abnorme di soggetti pubblici titolari del potere di appaltare opere pubbliche. Dovevano essere 20 in tutto. Uno per Regione e sottoposti a rigidi controlli, spinti fino alle dichiarazioni patrimoniali dei funzionari e dei loro familiari.
La norma c’era nel testo originale, ma non in quello che uscì dal Parlamento. «Tutte le forze politiche erano contrarie. Tutte», ricorda oggi Luigi Giampaolino, l’ex presidente della Corte dei conti che con l’attuale giudice costituzionale Giancarlo Coraggio era stato l’ideatore di quella tagliola invisa ai partiti. La verità è che se pochissimi digerivano l’inasprimento dei controlli, nessuno voleva cedere il potere di appaltare. Cioè di maneggiare denaro.
E anziché smantellare un sistema marcio si è continuati ad andare allegramente in direzione opposta. Da allora, dunque, gli appalti sui quali non aleggia il sospetto di corruzione si contano sulle dita di una mano. La legge Merloni è stata trasformata in una foglia di fico, depotenziata a ogni occasione con un’assurda moltiplicazione di regole, utilizzando anche norme che conteneva. Come l’abolizione dell’albo dei costruttori. Quel meccanismo, ormai screditato, è stato sostituito da un singolare sistema privatistico: per cui le certificazioni per partecipare a gare pubbliche vengono assegnate da soggetti privati, le Soa. Società su cui l’authority di vigilanza ha sollevato inutilmente a più riprese pesanti critiche, e su cui si sono concentrati talvolta interessi oggettivamente sorprendenti. Un dettaglio cromatico? In una di queste, la Azzurra 2000, era azionista insieme al figlio dell’ex ministro Cesare Previti il senatore di Forza Italia Luigi Grillo, in seguito presidente della commissione Lavori pubblici del Senato, ora invischiato nell’inchiesta sugli appalti dell’Expo 2015.
Ma la privatizzazione strisciante del sistema ha avuto altre significative tappe, con il risultato di allentare ancora di più i controlli. Vero è che il processo era stato già messo in moto prima di Tangentopoli. La costituzione del Consorzio Venezia nuova, concessionario privato che gestisce la montagna di miliardi pubblici per quel Mose scivolato ora nelle cronache giudiziarie, risale per esempio a metà degli anni Ottanta. Per un decennio, dal 1986 al 1995, è stato anche autorevolmente presieduto dall’attuale capo dei senatori del Partito democratico, Luigi Zanda.
È dopo Mani pulite, tuttavia, che tutto ciò ha trovato consacrazione. Con un disegno diabolico. La Merloni è stata seguita da una selva di regole: basta pensare a quell’assurdo codice degli appalti approvato nel 2006 con 257 articoli e 38 allegati. Per non parlare della infernale sovrapposizione di ruoli e competenze fra enti e istituzioni, con conferenze di servizi fino a 38 soggetti con potere di veto, come quelli comparsi per dare il via libera al progetto della stazione ferroviaria di Roma Tiburtina (con una spesa di 456 mila euro per le fotocopie da distribuire ai partecipanti più 22 mila per il loro smaltimento). Il risultato è stato quello di rendere il sistema sempre più inestricabile.
Nel nostro Paese si contano 33 mila stazioni appaltanti, dai piccoli Comuni ai Ministeri, passando per le università, i consorzi di bonifica, le comunità montane, che hanno a che fare con un dedalo di norme incomprensibili perfino per i tecnici più raffinati. Un brodo di coltura ideale per la corruzione, ed è la dimostrazione che quel cancro nessuno l’ha mai voluto seriamente sradicare. Mettiamoci anche il rapporto sempre più incestuoso fra la politica e gli affari e il dilagante senso di impunità fomentato da una giustizia lentissima e inefficiente: a febbraio l’Espresso ha rivelato che sui 60 mila detenuti nelle carceri italiane appena 11 erano dietro le sbarre per corruzione, 26 per concussione e 46 per peculato. Così il quadro è completo.
È sufficiente scorrere le Ansa degli ultimi mesi per rendersi conto di quanto siano diffuse e ramificate le metastasi. Qualche giorno fa 63 persone sono finite nel registro degli indagati per presunte tangenti su appalti al Policlinico di Modena. Poche settimane prima era scoppiato lo scandalo dell’Agenzia spaziale italiana. In precedenza la procura di Monza aveva scoperto un clamoroso giro di mazzette, 260 milioni pagati a politici e funzionari pubblici per manipolare le gare per lo smaltimento di rifiuti. Meccanismo identico a quello già scoperto nella provincia di Viterbo a fine 2012. E si potrebbe andare avanti per pagine intere.
La prova del nove che il sistema è stato congegnato per funzionare proprio in questo modo? Siccome le regole sono farraginose e difficili, sempre più spesso si deve ricorrere alle procedure straordinarie. Ecco allora le deroghe e le scorciatoie. Che regolarmente sfociano in puro arbitrio, producendo a loro volta corruzione. Ricordate gli appalti della Cricca gestiti con le procedure della vecchia Protezione civile? Ricordate gli scandali delle opere per i Mondiali di nuoto di Roma del 2009? Ricordate l’inchiesta sul terremoto in Abruzzo? Dov’erano i controlli, vi chiederete. Quelli erano stati in parte già smantellati prima della legge Merloni, tagliando le unghie alla Corte dei Conti. L’autorità di vigilanza, che era stata già pensata nel 1992, fu poi distrattamente istituita solo sette anni dopo, con poteri non adeguati alla bisogna. L’authority anticorruzione, prevista dagli accordi internazionali, invece, venne soppressa nella culla nel 2008 con il ritorno del centrodestra al governo: è stata rianimata soltanto ora, a distanza di sei anni.
E che dire della decisione di sganciare progressivamente l’Anas dalla pubblica amministrazione? Da branca del ministero dei Lavori pubblici ad azienda autonoma il passo è stato breve; ma ancor più breve quello da azienda autonoma a società per azioni. Date anche in questo caso un’occhiata alla banca dati dell’Ansa. Scoprirete 137 notizie, a partire dal 1992, con le seguenti due parole nel titolo: «Anas» e «tangenti».
L’oscar della perfezione, però, tocca all’Expo 2015. Operazione da miliardi affidata a una società per azioni fra ministero dell’Economia (40%), Regione Lombardia (20%), Comune di Milano (20%), Provincia di Milano (10%) e Camera di commercio milanese (10%). Il tutto, dato che c’era fretta, con la possibilità di derogare a ben 78 articoli del codice degli appalti. Il che non ha affatto frenato, secondo i magistrati, l’esborso di tangenti milionarie. Passate per le mani, è il sospetto, degli stessi collettori delle mazzette che operavano all’epoca di Tangentopoli. Solo, con più capelli bianchi.