Matteo Indice, Il Secolo XIX 5/6/2014, 5 giugno 2014
APPUNTI PER GAZZETTA - LO SCANDALO DI VENEZIA
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VENEZIA - Mentre prenderanno il via tra oggi e domani gli interrogatori degli arrestati nell’inchiesta della procura di Venezia su una presunta corruzione negli appalti per il Mose, il sistema che dovrebbe difendere la città lagunare dall’acqua alta, le carte dell’inchiesta dipingono un sistema illecito che per anni avrebbe visto imprenditori pagare ’stipendi’ a politici e autorità incaricate di vigilare sulla correttezza dei lavori, per ottenere in cambio favori o per evitare controlli.
"Provo una profonda amarezza - ha detto il premier Matteo Renzi in conferenza stampa a Bruxelles - ma ho piena fiducia nel lavoro della magistratura". Il problema sono i ladri, non le regole - aggiunge - i politici corrotti andrebbero indagati per alto tradimento. Non è possibile che chi viene condannato per corruzione dopo 20 anni possa tornare ad occuparsi della cosa pubblica. La mia proposta è di un "daspo" a politici e imprenditori implicati in vicende corrutive. Nelle prossime ore interverremo sugli appalti pubblici".
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"Sono intristito ma non stupito", ha detto invece il ministro della Giustizia, Andrea Orlando "non mi stupisce una situazione di mancanza di concorrenza che determina opacità".
Per il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone (nella foto), "quello che sta emergendo in questa vicenda è un sistema molto inquietante, ancora più di quello già grave venuto alla luce per Expo". E prosegue: "E’ innegabile che il sistema degli appalti deve essere ripensato" ma cambiare le regole non basta, occorre "discontinuità politica e culturale". Per Cantone "revocare un appalto laddove si individuino reati rischia di compromettere tutto il lavoro svolto per quella particolare manifestazione". Ma aggiunge: "Da privato cittadino e da studioso del diritto mi pare giusto affermare una cosa: nessuno deve poter ottenere vantaggio dalla propria attività delittuosa. E’ un tema delicato - ha continuato Cantone - ma voglio dire che la legge anticorruzione del 2012 prevede che possano essere inserite nei contratti clausole tipo patti di integrità, che consentono la revoca del contratto laddove si ravvisino fatti di corruzione".
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A Cantone risponde l’ex governatore lombardo Roberto Formigoni: "Vanno cambiate le regole di realizzazione di queste opere, come Expo e Mose. E’ chiaro che così non può funzionare: un magistrato, seppur con una squadra dietro, non può agire se le opere sono affidate in deroga. Ad oggi in Expo 4/5 sono affidate in deroga. Così non può funzionare, Cantone come fa ad agire?".
Secondo l’assessore comunale all’Ambiente di Venezia Gianfranco Bettin "si sapeva che gli arresti di Baita e Mazzacurati avrebbero portato lontano. Che in Veneto esistesse un sistema di affari illeciti, lo dicevamo da decenni" Intervistato dalla Stampa sottolinea: "Il modo in cui il Mose è stato realizzato, senza gara, la crescita di aziende fuori controllo, il rapporto stretto tra politica e imprese ha portato a questa situazione". Per Bettin la situazione è "peggio di Tangentopoli" perché "il dominus che doveva controllare i lavori era a libro paga, seconda l’accusa". "Qui abbiamo pezzi dello stato decisivi immersi in un sistema criminogeno e criminale".
Commenti sull’inchiesta anche da Beppe Grillo che contro il partito democratico di Matteo Renzi sul suo blog scrive "Noi vinciamo poi, intanto arrestano Voi". In risposta all’hashtag ideato dai democratici #vinciamopoi per sottolineare il risultato deludente dei 5 stelle alle europee, il comico genovese ha lanciato il "nuovo hashtag di tendenza #arrestanovoi". Grillo quindi elenca tutti i sindaci del Pd arrestati: "Il sindaco Pd di Modugno per concussione, arrestato sindaco Pd di Melito Porto Salvo per associazione mafiosa, (...) arrestato sindaco Pd di Venezia per le tangenti Mose, continua...". E alle ore 15, in diretta web sul sito della Camera dei deputati, question time in Commissione Ambiente: "I deputati del M5S - si legge in una nota - invitano la stampa a seguire l’evento. In quella sede il MoVimento chiederà conto al governo delle azioni da prendere contro quello che appare come l’ennesimo spreco fraudolento di denaro pubblico".
Tangenti per gli appalti del Mose: 35 arresti a Venezia
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E mentre il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, chiede da ieri di "poter incontrare il procuratore capo di Venezia, Delpino, per avere informazioni de visu su tutta la vicenda", l’assessore regionale Renato Chisso (Fi), tra i 35 arrestati nell’inchiesta, ha comunicato le sue dimissioni "irrevocabili" dall’incarico nella giunta veneta. Già ieri Zaia aveva ritirato immediatamente le deleghe a Chisso. La giunta veneta oggi ha proceduto con urgenza alla sostituzione dei dirigenti sospesi d’ufficio mentre il giorno dopo l’arresto ai domiciliari, per il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, arriva anche il provvedimento di sospensione dalla carica di primo cittadino. A firmarlo è stato il prefetto di Venezia, Domenico Cuttaia, che ha agito seguendo le procedure della legge Severino.
L’invito a risvegliarci dal torpore arriva invece dal presidente del Senato Pietro Grasso perché "combattere corruzione si può": "I romani che nel 43-44 combatterono per la libertà ci invitano a risvegliarci dal torpore collettivo che, oggi, induce a pensare che la lotta alle mafie, il contrasto dell’evasione fiscale, la resistenza a favoritismi, atteggiamenti clientelari, situazioni di conflitto di interesse e corruzione siano battaglie utopistiche". Più tardi Grasso commenta le parole di Renzi: "Siamo felici che all’iniziativa parlamentare si affianchi quella del governo sui temi della lotta alla corruzione. Speriamo che l’attesa possa essere utile per rafforzare l’impianto preventivo e repressivo, ma bisogna anche fare presto".
Per il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni la "prima riforma da fare è quella anticorruzione", dice al suo ingresso all’assemblea annuale di Confcommercio, parlando dell’inchiesta sul Mose. Secondo il leader della Cisl, infatti, senza il taglio delle stazioni appaltanti il sistema "diventa un abbeveratoio della politica". Quindi Bonanni invita a varare "un provvedimento che espropri Regioni e Comuni delle prerogative per gestire gli appalti".
Tangenti Mose: nel video il pagamento della mazzetta
Nel video agli atti dell’inchiesta sulle tangenti Mose, l’imprenditore Falconi ripreso dalla Finanza mentre passa una busta con i fondi neri a Savioli della cooperativa CoVeCo e consigliere del Consorzio Venezia Nuova
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VENEZIA - Un altro nome eccellente figura tra il centanaio di indagati nella nuova inchiesta sugli appalti del Mose, la grande opera a difesa di Venezia da alte maree e allagamenti. Si tratta di Altero Matteoli, ex ministro dell’Ambiente e successivamente ministro ai Trasporti. Lo si apprende da fonti della Procura di Venezia, che ha indagato Matteoli nell’ambito del maxi procedimento che ieri ha portato agli arresti 35 persone, tra cui il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni che, secondo fonti del Comune, è stato sospeso dall’incarico, assunto per il momento dal vicesindaco Sandro Simionato.
Matteoli, secondo indiscrezioni, sarebbe entrato nel gioco di dazioni di denaro, in cambio di favori, costruito da Giovanni Mazzacurati, ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, concessionario del ministero delle Infrastrutture per la realizzazione dell’opera, accusato di aver condizionato l’assegnazione dei lavori con la creazione di fondi neri da destinare al finanziamento illecito. Il coinvolgimento di Matteoli non riguarda però le opere del Mose, ma altri interventi di carattere ambientale eseguiti sempre dal Consorzio. Matteoli ha sempre smentito un suo coinvolgimento nella vicenda.
I provvedimenti della Procura veneziana hanno portato in carcere 25 persone, 10 ai domiciliari. Gli interrogatori inizieranno tra oggi e domani. Dalle oltre 700 pagine dell’ordinanza di arresto firmata dal gip di Venezia Alberto Scaramuzza emerge l’affresco di un sistema illecito che per anni avrebbe visto imprenditori pagare ’stipendi’ a politici e autorità incaricate di vigilare sulla correttezza dei lavori, per ottenere in cambio favori o per evitare controlli.
Ma la Procura di Venezia starebbe disponendo una serie di verifiche su decine di imprese, non coinvolte direttamente nel Consorzio Venezia Nuova, che potrebbero comunque aver partecipato al "sistema". Investigatori ed inquirenti non escludono infatti che il giro di mazzette possa essere ben più ampio dei 22 milioni accertati e che sia nell’ordine di centinaia di milioni.
La ricostruzione dei magistrati. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, alcuni degli imprenditori coinvolti nell’inchiesta avrebbero messo da parte fondi neri per diversi milioni di euro tramite false fatturazioni. Il denaro con cui garantirsi la complicità dei politici, nazionali e locali, pagando loro un vero e proprio stipendio. Spicca tra gli "stipendiati", sempre secondo l’ordinanza, il deputato di Forza Italia, ex presidente della Regione Veneto (dal 1995 al 2010) ed ex ministro Giancarlo Galan, la cui richiesta di arresto è stata presentata alla Camera.
A Galan, si legge nell’ordinanza, Mazzacurati ha girato "uno stipendio annuale di circa 1 milione di euro" per "compiere atti contrari ai suoi doveri". Galan avrebbe inoltre ricevuto 900.000 euro nel 2007-2008 e altrettanti soldi tra il 2006 e il 2007 per "rilasciare pareri favorevoli" a diversi lavori per la costruzione del Mose. In una nota ieri Galan ha detto di essere totalmente estraneo ai fatti.
Analoghi stipendi annuali, seppur di inferiore importo (400.000 euro), sono finiti nelle disponibilità dei due presidenti del Magistrato alle Acque di Venezia, che si sono succeduti dal 2001 al 2011, in questo caso per evitare controlli e rilievi che rientrano tra le competenze di questa autorità che secondo la procura veneziana, era in "totale sudditanza" nei confronti del Consorzio Venezia Nuova.
Il sindaco Orsoni è invece accusato di aver "ricevuto contributi illeciti consapevole del loro illecito stanziamento da parte del Consorzio Venezia Nuova" per la sua campagna elettorale alle Comunali del 2010, che vinse divenendo primo cittadino di Venezia, alla testa di una coalizione di centro sinistra. Per Renato Chisso (Forza Italia), assessore regionale veneto a Mobilità e Infrastrutture, era stato destinato uno stipendio annuale tra 200.000 e 250.000 euro.
Dagli atti dell’inchiesta, non si può fare a meno di rilevare punti di contatto con l’altro grande scandalo: l’Expo. Perché le indagini dei magistrati della Procura di Venezia - Stefano Ancillotto, Stefano Buccini e Paola Tonini -, iniziate nel 2011, nel febbraio dello scorso anno avevano portato all’arresto per frode fiscale di Piergiorgio Baita, presidente del cda Mantovani, colosso delle costruzioni del padovano che guida una cordata di imprese che si è aggiudicata per 160 milioni l’appalto per la realizzazione della piastra del sito espositivo di Expo Milano 2015.
Altra "contiguità" tra le due vicende giudiziarie: nella stessa circostanza era avvenuto l’arresto di Claudia Minutillo, ex segretaria di Galan e ad di Adria Infrastrutture, società della galassia Mantovani. Sempre a febbraio 2013 gli arresti del responsabile amministrativo di Adria Infrastrutture, Nicola Buson, e soprattutto del console onorario di San Marino William Colombelli. Titolare, quest’ultimo, della Bmc Broker, azienda di consulenza che aveva emesso fatture per attività tecniche svolte per conto del gruppo Mantovani che in realtà venivano svolte da altre società e in altri casi mai fatte. Fatture false, pagate tramite bonifico su conti bancari di San Marino. A stretto giro, gli importi sarebbero stati prelevati in contanti per la quasi totalità da Colombelli e poi ridati a Baita e alla Minutillo per la creazione di un fondo nero da 10 milioni di euro.
Quanto al ruolo degli altri indagati, il Gip scrive che Marco Milanese, ex collaboratore dell’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, avrebbe ricevuto, nel 2010, 500.000 euro da Mazzacurati per "influire sulla concessione dei finanziamenti del Mose" e in particolare "fare inserire nella delibera del Cipe la somma relativa ai lavori gestiti dal Consorzio Venezia Nuova, inizialmente esclusa dal ministro (Tremonti)".
A far da tramite tra Mazzacurati e Milanese, secondo quanto si legge nell’ordinanza, l’ad di Palladio Finanziaria, Roberto Meneguzzo, arrestato ieri. Secondo il gip, inoltre, gli stessi Milanese e Meneguzzo avrebbero poi messo in contatto Mazzacurati con un altro arrestato: il generale della Gdf Emilio Spaziante, oggi in pensione ma all’epoca dei fatti comandante interregionale dell’Italia centrale. A cui l’ex presidente del Consorzio avrebbe promesso 2,5 milioni di euro per influire "in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del Consorzio". Di fatto, però, Mazzacurati consegnò "a titolo di acconto" solo 500.000 euro a Spaziante, Milanese e Meneguzzo per il loro coinvolgimento nella vicenda.
500mila euro nascosti dietro un armadio. Dalle carte dell’inchiesta sul Mose emergono anche dettagli che potrebbero essere anche divertenti se non raccontassero la triste realtà italiana. Come quella di una mazzetta da 500mila euro destinata, secondo i pm, a Milanese, buttata dietro un armadio per evitare che fosse trovata dalla Guardia di Finanza.
L’episodio lo racconta in un interrogatorio Claudia Minutillo, a questo punto una delle figure chiave dell’inchiesta. "Quella volta che la Guardia di Finanza arrivò in Consorzio Venezia Nuova a fare l’ispezione - riferisce Minutillo al pm - e Neri (uomo di fiducia di Mazzacurati, ndr) aveva nel cassetto 500mila euro da consegnare, dissero, perché io non c’ero... Mi raccontarono ’pensa che c’era Neri che aveva nel cassetto 500 mila euro da consegnare a Marco Milanese per Tremonti, e li buttò dietro l’armadiò". "La Guardia di Finanza - prosegue Minutillo nell’interrogatorio - sigillò l’armadio e la sera andarono a recuperarli".
GIANNINI SU REPUBBLICA
Cos’altro deve succedere, per convincere la politica a muovere un passo concreto, tangibile e inequivocabile, contro la corruzione che torna a minare le basi della convivenza civile e della concorrenza economica? Quante altre retate devono accadere, per spingere il governo e il Parlamento a ripristinare con un atto definitivo, responsabile ed efficace, il principio di legalità di cui in questi anni di fango hanno fatto strame tutti, ministri e sottosegretari, amministratori centrali e cacicchi locali?
Domande tutt’altro che oziose (o capziose), di fronte all’acqua lurida che tracima dal Mose, dove proprio la politica si è definitivamente messa "a libro paga", esigendo quello che i magistrati chiamano "lo stipendio di corruzione".
Da Tangentopoli e Mani Pulite in poi, e per un infinito ventennio di malaffare pubblico e privato, non solo si è fatto assai poco. Ma quel poco che si è fatto lo si è fatto assai male. Grandi proclami, piccoli compromessi. Leggi-feticcio, da dare in pasto al popolo bue. E poi appalti in deroga a volontà, per lucrare fondi neri. Non solo in epoca berlusconiana, che sappiamo straordinariamente nefasta sul piano etico. Anche in tempi più recenti, che speravamo finalmente proficui sul piano della ricostruzione morale e della legislazione penale.
Così non è stato. Così non è ancora. E al presidente del Consiglio Renzi, che meritoriamente dichiara di voler "cambiare verso" all’Italia anche dal punto di vista della giustizia e che opportunamente si accinge a dare più poteri al commissario anti-corruzione Cantone, non è inutile ricordare quanto è accaduto e quanto sta ancora accadendo. Al di là degli annunci, che pure servono a scuotere la coscienza di un Paese disabituato al meglio e assuefatto al peggio, ma che da soli non bastano a consolidare nell’opinione pubblica la percezione di un vero cambiamento. Da troppo tempo - interrotti solo dai blitz dei pm sulle infinite cricche tricolori, dal terremoto dell’Aquila al G8 della Maddalena, dai mondiali di nuoto al sacco di Carige, dall’Expo milanese al Mose veneziano - abbiamo ascoltato alti lai e asciugato lacrime di coccodrillo. Ma nulla è cambiato, nei codici e nelle norme di contrasto. C’è come l’accidiosa consapevolezza che la corruzione, con i suoi 60 e passa miliardi di "fatturato" l’anno, rappresenti una parte essenziale e forse irrinunciabile del Pil nazionale. Così l’establishment, politico ed economico, celebra a ogni nuovo arresto la Grande Ipocrisia. Interviste sdegnate, riunioni d’emergenza. Poi più nulla. O leggi fatte male, a volte col legittimo sospetto che le si vogliano esattamente così, per convenienza bipartisan.
La legge Severino occasione mancata
Non parliamo, stavolta, dei misfatti compiuti da Berlusconi premier. Sono tristemente noti. Diamo dunque per acquisite le 12 leggi ad personam azzardate dall’ex Cavaliere sulla giustizia. La colossale occasione, miseramente mancata, è stata la legge Severino, approvata dal governo Monti nel novembre 2012. Insieme a qualcosa di buono (le nuove norme sulla decadenza e l’incandidabilità, che costano allo stesso Berlusconi condannato il seggio al Senato) la legge "spacchetta" inopinatamente il reato di concussione, riducendo i reati (e dunque i tempi di prescrizione) per l’ipotesi meno grave (ma infinitamente più frequente) dell’"induzione". L’anomalia viene segnalata dai magistrati, rilevata dal "Sole 24 Ore" e da "Repubblica", che ne chiede conto al ministro Guardasigilli consegnandole 250 mila firme raccolte a favore di una "seria legge contro la corruzione". Ma non c’è niente da fare. La legge passa così com’è, con la benedizione trasversalissima delle appena nate Larghe Intese: "tecnici" montiani, Pd e Pdl votano compatti, alla Camera: 480 favorevoli, solo 19 contrari, il Parlamento approva.
Di lì nascono tutti i guai successivi. Berlusconi userà i benefici derivanti dal caos normativo innescato dalla legge Severino nel processo Ruby. La stessa cosa farà Filippo Panati nel processo Falck. Un caos che nel frattempo viene autorevolmente certificato. A febbraio di quest’anno tocca alla Ue, nel suo rapporto sulla corruzione, evidenziare la lunga "serie di problemi irrisolti" lasciati dalla legge Severino (prescrizione, falso in bilancio, autoriciclaggio, voto di scambio) e stigmatizzare "gli effetti della frammentazione del reato di concussione". Il 15 marzo tocca invece alla Corte di Cassazione denunciare per sentenza i danni causati da quella legge all’esercizio della giurisdizione, e chiedere a governo e Parlamento di porvi rimedio al più presto.
I segnali contraddittori del Parlamento
La richiesta cade nel vuoto. Mentre cominciano a scoppiare i nuovi scandali, governo e Parlamento non solo non raccolgono l’invito. Ma si muovono lanciando al Paese segnali contraddittori, su tutti i fronti che riguardano lo Stato di diritto. Due esempi, ma clamorosi perché passati sotto silenzio. Il 28 gennaio 2014 il governo Letta approva il decreto legge numero 4, "disposizioni urgenti in materia di emersione e rientro dei capitali detenuti all’estero". È la cosiddetta "voluntary disclosure", in voga in altri Paesi dell’Unione. Ma da noi viene allentata oltre misura. Al Senato il testo originario viene modificato, le imposte dovute sui capitali rientrati vengono dimezzate e i reati di frode "con altri artifici", oltre alla omessa o infedele dichiarazione, vengono depenalizzati. Di fatto, quasi un colpo di spugna, che alla fine non passa solo perché la Camera il 19 marzo decide di stralciare queste norme e di farle confluire in un ddl che sarà presentato in futuro.
Per uno scampato pericolo, un disastro compiuto. Il 17 maggio è entrata in vigore la legge numero 67, che introduce la possibilità di chiedere l’affidamento in prova ai servizi sociali nei procedimenti per delitti economico-finanziari con pene fino a 4 anni di detenzione. In questi casi, su richiesta del soggetto incriminato, si sospende il processo e si avvia un percorso di servizio e risarcimento, di durata massima 2 anni, al termine del quale il reato si estingue. Nella lista dei delitti per i quali si può ottenere il beneficio ci sono l’omessa dichiarazione dei redditi, la truffa, il falso in bilancio e persino il furto. Questo sì, a tutti gli effetti, ha le fattezze di un "colpo di spugna", studiato proprio per i reati dei "colletti bianchi". Il Parlamento approva unanime la legge, il 2 aprile scorso, nell’indifferenza dei più.
Il governo Renzi la Grande Speranza
Mentre riesplodono le nuove e vecchie Tangentopoli, che vedono il potere politico alternativamente vittima e a volte carnefice di quello economico, il Parlamento invia dunque questi strani segnali di fumo al Paese. Delinquere non è poi così compromettente. Alla fine si può scendere a patti. Di fronte a tanto cinismo consociativo, la Grande Speranza si chiama Matteo Renzi. Solo lui può spazzare via la Grande Ipocrisia chiamata lotta alla corruzione. Ma le prime mosse del premier non sono confortanti. Nel discorso sulla fiducia alle Camere, il 22 febbraio, il nuovo presidente del Consiglio non dice una parola sul tema della legalità e delle strategie di contrasto al malaffare. Un silenzio che assorda, e che spinge Roberto Saviano a scrivere una lettera aperta al premier, su "Repubblica" del 28 febbraio. Renzi raccoglie la sollecitazione, e il giorno dopo annuncia dal salotto di Fabio Fazio, a "Che tempo che fa", la nomina di Raffaele Cantone alla guida dell’Autorità anti-corruzione, nata un anno prima e mai formata.
È un primo indizio, che sembra rassicurante. Ma le mosse successive, purtroppo, non sembrano trasformarlo nella prova che tutti aspettiamo. La vicenda del Documento di Economia e Finanza, non aiuta a capire qual è la vera strategia del governo. Il Consiglio dei ministri, riunito a Palazzo Chigi, approva il Def l’8 aprile. Renzi ne illustra le linee guida, con le solite slide. Il giorno dopo, sul suo sito, il ministero dell’Economia pubblica il testo integrale. A pagina 27 del Piano Nazionale delle Riforme, compare un ricco capitolo dedicato alla giustizia: "Asset reale per lo sviluppo del Paese", è il titolo. Pier Carlo Padoan, dai tempi dell’Ocse, ha bastonato duramente l’Italia, proprio per i ritardi sulla corruzione. Per questo, nel Def, il ministro scrive parole chiarissime, non solo sulla giustizia civile e amministrativa, ma proprio sulla lotta alla corruzione: occorre "rivedere la disciplina del processo penale, con particolare riferimento all’istituto della prescrizione, ferma restando l’esigenza di assicurare la certezza e ragionevolezza dei tempi". Più avanti: "Introduzione dei reati di autoriciclaggio e autoimpiego, anche rafforzando il 41 bis". E infine: "È necessario affrontare in modo incisivo il rapporto tra gruppi di interesse e istituzioni e disciplinare i conflitti di interesse e rafforzare la normativa penale del falso in bilancio".
Lo strano caso del Def depotenziato
Finalmente una dichiarazione programmatica impegnativa. Il segno che "cambiare si può". Ma sei giorni dopo, quando il Def arriva alle Camere per l’avvio dell’iter parlamentare, il testo è sorprendentemente cambiato. Il capitolo Giustizia rimane, alle pagine 29 e 30, e poi a pagina 63, nel capitolo II.10 intitolato "Una giustizia più efficiente". Si parla di tutto, dalla riforma della giustizia civile al sovraffollamento carcerario, dalle leggi già varate sul voto di scambio a quelle contenute nella Severino. Si propone la "mediazione obbligatoria" e la "depenalizzazione dei reati minori", la "difesa dei soggetti più deboli" e la "tutela dei minori". Ma per quanto li si cerchi, i paragrafi sulle modifiche al processo penale, dalla prescrizione all’autoriciclaggio, dall’autoimpiego al falso in bilancio, non ci sono più. Chi e perché le ha cancellate? Una spiegazione possibile, anche se parziale, la forniscono gli atti parlamentari. Il 16 aprile, durante il dibattito in Commissione Giustizia della Camera, i deputati Cinquestelle almeno per una volta fanno bene il loro mestiere. Alfonso Bonafede "ritiene che sia estremamente grave che nella formulazione presentata alle Camere del Def in data 9 aprile 2014 venga fatto espressamente riferimento all’esigenza di affrontare definitivamente entro giugno 2014 il problema dei tempi di prescrizione e che ieri, martedì 15 aprile, dopo che nella serata di lunedì 14 aprile il presidente del Consiglio si sia incontrato con Silvio Berlusconi, sia pervenuta alle Camere una "errata corrige" da parte della presidenza del Consiglio, nella quale è stato cancellato ogni riferimento alla questione della prescrizione".
La risposta di Donatella Ferranti, presidente della Commissione, arriva di lì a poco: "Le correzioni apportate con l’errata corrige - replica l’esponente del Pd - erano state in realtà segnalate dagli uffici del Ministero della Giustizia alla Presidenza del Consiglio la scorsa settimana". Dunque, non sarebbe stato il premier a "depotenziare" il testo, e meno che mai l’avrebbe fatto dopo l’incontro di due ore, a Palazzo Chigi, con l’ex Cavaliere. Possiamo credere alla ricostruzione della Ferranti. Ma l’anomalia resta. E se a "sbianchettare" i paragrafi sul programmato giro di vite per la prescrizione, l’autoriciclaggio e il falso in bilancio è stato il ministro Orlando, e non Renzi, che differenza fa? Di nuovo: che segnale si vuol mandare al Paese?
Le prossime tappe del cronoprogramma
Siamo all’oggi. La gigantesca metastasi delle mazzette, che si propaga da Milano a Venezia nel corpo malato dell’"operosa Padania", obbliga il governo a fare qualcosa, subito. Orlando ha preso tempo sui vari provvedimenti già all’esame del Parlamento da più di un anno (dal testo della Commissione Fiorella sulla prescrizione alle diverse proposte sul falso in bilancio). Ha rinviato tutto a un più organico disegno di legge anti-corruzione, originariamente previsto entro l’estate e ora forse anticipato alla prossima settimana. Ma nel frattempo deve battere un colpo, almeno sulla promessa attribuzione dei pieni poteri a Cantone e magari anche sull’autoriciclaggio. Se ci riuscirà, al Consiglio dei ministri di domani, sarà tanto di guadagnato. Ma di fronte alla nuova Questione Morale, che torna a devastare drammaticamente il Paese e a sporcarne irrimediabilmente l’immagine, non basta più la narrazione riformista. Serve l’azione riformatrice. Chiara e severa, senza concessioni e senza ambiguità. Anche così si difende la memoria di Enrico Berlinguer dagli iconoclasti pentastellati.
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