Domenico Quirico, La Stampa 5/6/2014, 5 giugno 2014
VIAGGIO NELLA VALLE DEL NILO DOVE L’UOMO CREÒ L’AGRICOLTURA
Un piccolo mondo antico che vive lungo la ricca treccia bionda del Nilo, vibrante del fervido verde della fascia di campagna che esso si trascina dietro, dalla Nubia al delta: qui sono venuto a cercare, sullo sfondo di un mondo altrettanto antico, morto, le tracce della nascita dell’agricoltura, il rapporto eterno tra l’uomo e la terra, il primo seme gettato e il miracolo dello sbocciare e del raccolto. Questo piccolo mondo antico e vivo balza all’occhio con la nitidezza didattica della illustrazione di un testo di geografia per le scuole nella campagna, quando il Cairo è dietro di noi ormai 150 chilometri.
Una evidenza che non immaginavo, che mi sconcerta e mi sorprende e fa dimenticare il mio tempo. E così ti lasci riassorbire, l’uno dietro l’altro, dai grappoli dei secoli fino a ritrovarti preso in una stagione della condizione dell’uomo e delle sue fatiche tanto più pura quanto più elementare, e quanto più elementare tanto più gonfia di una immacolata poesia.
«Quest’anno è andata bene - mi hanno rassicurato al Cairo, alla partenza – i raccolti sono salvi, le cavallette non arriveranno. Ne stanno fermando gli sciami pestiferi ai confini con il Sudan. Tre anni fa fu il disastro, perfino i frutti e gli ortaggi esposti nel mercati della capitale divorarono, le maledette, lasciando i contadini poveri, nudi».
Le cavallette: la maledizione biblica! Ma in quale tempo mi sono immerso?
Un asinello bigio che reca sul dorso un contadino in tunica azzurra, le gambe ciondolanti a sfiorare con le dita dei piedi le erbe, è un pezzo di questo mondo antico e vivo. Avanza lungo il canale a cui si aggrappano i campi di grano di ortaggi di canne. Di palme più simili a erbe gigantesche che ad alberi, come una messe che non matura una volta sola, ma ogni anno si rinnova nei datteri gialli, rossi, marroni.
L’acqua del canale dove il Nilo si svena, acqua lutulenta, acqua da lavoro, senza riflessi invitanti, acqua senza più ricordi delle lontane cime nevose d’Etiopia, delle solitudini equatoriali da cui si sono messe in moto, in cui galleggiano capovolte le lavandaie che battono i panni col sasso e i bimbi sottili e arguti come in un bassorilievo sepolcrale.
L’alto verzicante canneto sui cui bordi accosciate donne puliscono filo dopo filo, erba dopo erba il campo: un altro pezzo di quel mondo. I mazzi di palme alla cui gracile ombra gira la grezza ruota della noria e la sospinge, sonnolentemente, un asinello bendato nel tetro eterno circolare inseguimento delle proprie orme nella polvere: ancora un pezzo di quel mondo millenario e intatto.
Pezzi vivi e antichi sono le donne in velo nero e monacale sul sentiero del villaggio, in equilibrio sul capo anfore di terra. Ma qui le vedi anche sedute a fianco degli uomini sull’uscio di casa, spettacolo eretico in questo islam ormai contaminato dal fanatismo; e qualcuna che, con un gesto di immortale innocenza, estrae il seno per allattare il bimbo: nessun cantilenare iroso di salafiti ha stordito quella dolce abitudine senza tempo.
Nel villaggio ancora vedi le case di mota grigia incrostate al suolo come giganteschi eczemi della terra; accanto, le case «nuove» messe su con i mattoni di gesso bianco appaiono stonate e fragili, quelle costruite con i soldi accumulati in Arabia saudita o negli Emirati, dagli emigranti.
«Quelle di mattoni di fango crudo erano perfette mi dice un vecchio contadino quando il grande caldo arriva conservavano il fresco, questa nuove… Si mettono su in fretta perché questi mattoni sono leggeri ma poi si trasformano in un forno».
Già il limo, la ricchezza eterna del Nilo oggi non c’è più, la diga di Assuan, il sogno di Nasser, faraone socialista, l’ha rubata al contadino. La diga: riproposizione delle piramidi, questa rivolta alla vita, quelle rivolte alla morte. Il limo e il fiume, causa e ragione di tutte le cose. Il ciclo della fecondazione e della nascita senza le ierogamie del cielo e della terra laddove la pioggia è quasi sconosciuta, fu solamente collegato alla annua invasione delle acque. Mai in nessuna civiltà antica che creò la agricoltura, la terra tra i due Fiumi, l’Anatolia, la Cina, l’Etiopia, il mistero della vita fu più assiduamente vivo che negli egiziani con quello straordinario spettacolo annuale della terra ricoperta dell’immenso liquido fondatore. Ai contadini è rimasta la pratica sostitutiva dei fertilizzanti, difficile da apprendere per chi aveva il dono gratuito e ben regolato del dio. E appestata dai lerci maneggi degli uomini. Perché il sacchetto di fosfati che dovrebbe costare 80 piastre lo trovi solo al mercato nero: a 250. E sono gli stessi dirigenti delle fabbriche a nascondere il prodotto per venderlo agli speculatori. Piccola scaglia della grande pratica egiziana della corruzione che ha slabbrato e divelto regimi e dinastie, giù giù fino a Mubarak e ai Fratelli musulmani.
Ecco là un aratro di legno capace appena di carezzare la zolla trainato con pigrizia esemplare da un due bufali colore del ferro, la terra nera quella che diede primissimo nome all’Egitto, «Hemit». Ecco gli ibis affollati attorno al contadino che zappa curvo con una roncola corta. È così breve di manico, mi hanno spiegato, perché qui la terra è dura da scalfire.
Questi arnesi e i covoni accatastati (qui il raccolto del grano è già concluso) mi ricordano quanto ho visto durante il viaggio nella sosta alle mastabe di Saqqara, le rappresentazioni che si sovrappongono a registri come le righe della carta da musica, con le scene agricole, le offerte di raccolti, di bestiame, di cose da mangiare che riempiono pareti e pareti.
Quello che un tempo era il granaio di Roma e del Mediterraneo è diventato uno dei maggiori importatori di cereali del mondo. Il numero dei fellah aumenta a milioni mentre la terra coltivata si è ridotta, inghiottita dalle città che avanzano implacabili, nutrendosi di campi e di deserto. Fu Nasser che cercò di spezzare nella vita del fellah la schiavitù millenaria del «Quadim», ovvero di tutto ciò che è già successo, che è anteriore alla sua nascita e che diventa la norma regolatrice della sua vita.
La riforma agraria donò cinque ettari di terra a famiglia, ma le divisioni ereditarie l’hanno dirotti a lotti sempre più piccoli. E poi gli errori dei politici: come la rivoluzione agraria voluta da Mubarak venti anni fa. Non più grano, si proclamò con arroganza, ma colture ricche da esportazione. Avremo denaro con cui comprare la farina e ancora mantenere un guadagno. Un disastro.
Fino alla rivoluzione il governo pagava il grano portato all’ammasso meno di quello importato, mi raccontano al caffè di un villaggio, sospendendo una furiosa partita a domino. Parlano con calma, senza rabbia, solo le rughe ai lati delle guance, quelle rughe di tenacia, si fanno più incavate e più dure: «Sai perché? Perché gli importatori in tutto l’Egitto erano tre ed erano soci di Mubarak!».
Il silenzio del mondo che rotola nello spazio incombe così denso che non distrae neppure la voce degli armenti o i richiami dei contadini. È al tramonto, quando il calore cala e il lavoro si fa più frenetico. In cinquemila anni le pietre hanno subito il lavorio delle carie del tempo; non così il piccolo mondo antico vivo. Integro, compatto, incontaminato. Il medesimo, grave ancestrale ritmo, la medesima fatica della esistenza confidata al solo meccanismo delle braccia, la medesima stretta parentela con il fango, con il fiume, con la pianta, la bestia, il lavoro.
È facile farsi riassorbire in questo piccolo mondo antico che fa dimenticare il tempo e ritrovarsi preso in una stagione della condizione dell’uomo e delle sue fatiche tanto più pura quanto più elementare, e quanto più elementare tanto più gonfia di una immacolata poesia To be or not to be: that is the question: whether ’tis nobler in the mind to suffer whe slings and arrows of outrageous fortune, or to take arms against a sea of troubles, and by opposing end them? To die: to sleep; no more; and by a sleep to say we end the heart-ache and the thousand natural shocks that flesh is heir to, ’tis a consummation devoutly to be wish’d. To die, to sleep; to sleep: perchance to dream: ay, there’s the rub; for in that sleep of death what dreams may come when we have shuffled off this mortal coil, must give us pause: there’s the respect that makes calamity of so long life; for who would bear the whips and scorns of time, the oppressor’s wrong, the proud man’s contumely, the pangs of despised love, the law’s delay, the insolence of office and the spurns that patient merit of the unworthy takes, when he himself might his quietus make with a bare bodkin?To be or not to be: that is the question: whether ’tis nobler in the mind to suffer whe slings and arrows of outrageous fortune, or to take arms against a sea of troubles, and by opposing end them? To die: to sleep; no more; and by a sleep to say we end the heart-ache and the thousand natural shocks that flesh is heir to, ’tis a consummation devoutly to be wish’d. To die, to sleep; to sleep: perchance to dream: ay, there’s the rub; for in that sleep of death what dreams may come when we have shuffled off this mortal coil, must give us pause: there’s the respect that makes calamity of so long life; for who would bear the whips and scorns of time, the oppressor’s wrong, the proud man’s contumely, the pangs of despised love, the law’s delay, the insolence of office and the spurns that patient merit of the unworthy takes, when he himself might his quietus make with a bare bodkin?To be or not to be: that is the question: whether ’tis nobler in the mind to suffer whe slings and arrows of outrageous fortune, or to take arms against a sea of troubles, and by opposing end them? To die: to sleep; no more; and by a sleep to say we end the heart-ache and the thousand natural shocks that flesh is heir to, ’tis a consummation devoutly to be wish’d. 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