Francesca Paci, La Stampa 5/6/2014, 5 giugno 2014
“IN FUGA DA ASSAD E AL QAEDA IL MONDO CI HA DIMENTICATI”
Il mezzo è sempre Skype. Chi lo usa, però, i ragazzi siriani che tre anni fa lanciarono il guanto di sfida ai signori di Damasco sull’esempio dei coetanei egiziani e tunisini, è cambiato: resta in campo, raccoglie documenti che spera un giorno di mostrare al mondo, ma l’umore è cupo. Mentre le zone sotto il controllo lealista hanno rieletto quell’Assad che secondo un’inchiesta di «Le Monde» continua a bersagliare ribelli e civili con gas cloro, gli attivisti della prima ora si leccano le ferite incapaci di ritagliarsi uno spazio tra il regime e al Qaeda, i due mattatori della scena siriana prossimi a legittimarsi a vicenda.
«Siamo nelle retrovie» ammette Omar, pioniere della rivolta disarmata. Si scalda: «Per 3 anni, 24 ore al giorno, 7 giorni a settimana i ragazzi come me hanno mostrato al mondo i crimini di Assad prima che arrivasse al Qaeda. Invano. Nonostante il regime e i terroristi siamo vivi, ma impotenti. Fino all’inizio del 2012 gli unici qaedisti in Siria erano quelli liberati dalle galere del regime. I media internazionali trattano le vittime siriane come numeri ma si sono tuffati sulla storia dell’Isis, lo Stato Islamico del Levante. Scusate la rabbia, ma ci sentiamo abbandonati».
Omar è uno tra i molti che rispondono ancora al telefono. La sua storia e i suoi sentimenti sono quelli di tutti gli altri. Ha 25 anni e ha passato gli ultimi tre nella trincea politica (non armata) della rivolta contro Assad: «Ero ricercatore all’università di Homs, avevo la laurea in letteratura inglese, dovevo perfezionarmi in Gran Bretagna. Poi è scoppiata la rivoluzione, mi sono dato anima e corpo al media attivismo che in Siria si è rivelato inutile. Il mio nome adesso è nella lista nera, sono stato cacciato dall’ateneo. Un anno fa mio padre e mio fratello sono stati uccisi e io, mia madre e le mie sorelle siamo scappati in Turchia. Allora era facile, adesso Ankara ha messo molte restrizioni, ci sono migliaia di disperati che non riescono a passare il confine. Collaboro con una organizzazione umanitaria qui a Gaziantep che si occupa dei rifugiati. Tengo un profilo basso, ho la carta d’identità ma niente passaporto. Volevo chiederlo quando ero studente ma non avevo soldi per viaggiare e aspettavo. Ora è difficile ottenerlo. Ci sto provando sotto banco, perché il regime è corrotto fino al midollo e perfino ora uno come me può aggirare i veti pagando tanti soldi. Ma intanto sono irregolare, se il governo turco voltasse le spalle ai siriani sarei nei guai». La rivoluzione siriana non è morta, lo ripete. Ma dopo i primi mesi è precipitata e ora sopravvive nella resilienza di chi non può mollare: «Non c’è spazio per quelli come me in una Siria in mano ad Assad. Anche se dopo queste elezioni-farsa annunciasse la riconciliazione nazionale non tornerei. Il regime aspetterebbe e poi ci ammazzerebbe tutti, non distingue tra me e i macellai dell’Isis, va più d’accordo con al Qaeda che con noi».
La guerra di Omar non coincide con la narrazione ufficiale che vede Assad in recupero sul terreno ma anche nella considerazione internazionale, baluardo estremo contro i nuovi Bin Laden: «I moderati pacifici sono scappati dalla Siria ma i moderati armati sono ancora lì. Sono deboli, la comunità internazionale ha scelto di non fare nulla per sostenerli e loro hanno perso terreno rispetto ai terroristi che prima o poi l’Occidente si ritroverà in casa, ma resistono». Omar racconta per sentirsi vivo: «Molti attivisti hanno ripiegato sull’aiuto ai rifugiati. Prima avevamo di fronte solo Assad adesso ci sono anche i terroristi, invasati provenienti da mezzo mondo che hanno memorizzato gli hadit in cui si parla della Siria come della terra del Levante da liberare un giorno dagli infedeli e si sono convinti che quel giorno sia ora. I terroristi hanno ideologia e soldi. Siamo sempre stati un popolo non estremista, la ferocia contro i cristiani e gli alawiti non ci appartiene. Non ho perduto la mia vita per questo inferno, ma nessuno ricorda più perché ci siamo ribellati al regime».
Francesca Paci, La Stampa 5/6/2014