Joel K. Bourne, Jr., National Geographic 5/6/2014, 5 giugno 2014
RIVOLUZIONE AZZURRA – [GIÀ OGGI IL MONDO PRODUCE PIÙ PESCE DA ALLEVAMENTO CHE CARNE, E SIAMO SOLO ALL’INIZIO]
In un capannone umido e buio ai piedi dei monti Blue Ridge, in Virginia, Bill Martin prende un secchio di mangime per pesci e ne versa il contenuto in una lunga vasca di cemento. Subito la superficie ribolle di pesci bianchi, grassi, lunghi una ventina di centimetri ciascuno: sono tilapie del Nilo. Martin, che è il presidente della Blue Ridge Acquaculture, uno dei più grandi allevamenti ittici al chiuso del mondo, sorride della loro impazienza.
«Questi sono i pesci che pescava san Pietro, quelli che Gesù moltiplicò per sfamare le moltitudini», dice, con una voce roca che ricorda quella di un predicatore. Ma a differenza di Gesù Martin i suoi pesci non li regala. Ogni giorno vende più di cinque tonnellate di tilapie vive ai grossisti di diverse città, che poi le distribuiscono soprattutto a ristoranti e negozi asiatici. Ha in programma di aprire un altro allevamento sulla costa ovest. «Il mio modello sono gli allevamenti di polli», dice. «La differenza è che da noi i pesci sono felicissimi».
«E lei come lo sa?», gli chiedo, notando che la vasca è talmente affollata che san Pietro potrebbe tranquillamente camminare su un tappeto di tilapie. «Di solito i pesci manifestano la loro infelicità morendo», risponde lui. «E io finora non ho perso nemmeno una vasca».
Una zona industriale nella regione degli Appalachi non sembra il posto ideale per allevare qualche milione di pesci originari del Nilo. Ma oggi gli allevamenti ittici su scala industriale stanno spuntando un po’ dappertutto. Dal 1980 a oggi l’acquacoltura è cresciuta del 1400 per cento circa. Nel 2012 la produzione globale di specie acquatiche allevate – dai salmoni argentei ai poco attraenti cetrioli di mare che solo i cuochi cinesi sanno apprezzare – ha raggiunto i 66 milioni di tonnellate, superando per la prima volta quella di carne bovina. Quasi metà dei pesci e dei frutti di mare consumati nel mondo vengono ormai da allevamento. Si stima che nei prossimi vent’anni l’aumento di popolazione e redditi e la tendenza a consumare alimenti ritenuti più sani per il sistema cardiocircolatorio faranno crescere la domanda di pesce del 35 per cento o più. Ma il rendimento della pesca è stagnante ovunque, e in pratica tutto l’aumento della domanda dovrà essere coperto dall’acquacoltura.
«Non sarà la pesca a darci tutte le proteine di cui abbiamo bisogno», sostiene Rosamond Naylor, esperta di politiche alimentari della Stanford University. «Ma la gente è diffidente, non vuole un sistema di allevamenti intensivi anche in mare. Così dobbiamo fare le cose giuste fin dall’inizio».
I motivi di preoccupazione non mancano.
LA NUOVA “RIVOLUZIONE BLU”, che ha riempito i freezer dei supermercati di gamberi, salmoni e tilapie a buon mercato, ha anche riprodotto buona parte dei problemi causati dall’industria agricola sulla terraferma: distruzione degli habitat, inquinamento dell’acqua, allarmi sulla sicurezza dei prodotti. Nel corso degli anni Ottanta vaste fasce di mangrovie tropicali sono state cancellate per far posto agli allevamenti di gamberi. Adesso l’inquinamento da acquacoltura – una putrida miscela di azoto, fosforo e pesci morti – rappresenta un pesante rischio ambientale in Asia, dove si produce il 90 per cento del pesce di allevamento del mondo. Per evitare che i pesci muoiano nelle loro vasche o gabbie sovraffollate, gli allevatori asiatici usano antibiotici e pesticidi proibiti in Europa, Giappone e Stati Uniti.
Non che gli allevamenti del resto del mondo siano immacolati. La moderna industria del salmone, che negli ultimi trent’anni ha riempito fiordi incontaminati – dalla Norvegia alla Patagonia – di gabbie stracolme di salmoni dell’Atlantico, combatte costantemente contro parassiti, inquinamento e malattie. Negli ultimi anni le epidemie hanno falcidiato gli allevamenti di salmoni scozzesi e cileni, e praticamente distrutto l’industria dei gamberi del Mozambico.
Il problema non è l’antica pratica della piscicoltura in sé, ma la sua rapida intensificazione. I cinesi cominciarono ad allevare carpe nelle risaie già 2500 anni fa, ma oggi producono circa 42 milioni di tonnellate di pesce d’allevamento l’anno, soprattutto varietà a crescita rapida di carpe e tilapie nutrite con mangime concentrato.
«Mi sono ispirato alla rivoluzione verde dei cereali e del riso», spiega Li Sifa, genetista della Shanghai Ocean University noto come “il padre della tilapia”. È stato lui a sviluppare la varietà a crescita rapida che oggi consente agli allevatori cinesi di produrre ogni anno un milione e mezzo di tonnellate di tilapia, in maggioranza destinate all’esportazione. «L’importante è avere i semi buoni», prosegue lo scienziato. «Una varietà buona può far nascere un’industria forte in grado di nutrire molte persone. È questo il mio dovere: fare pesci migliori, farne di più, in modo che gli allevatori possano arricchirsi e la gente avere più cibo».
Come raggiungere questi obiettivi senza aumentare l’inquinamento e i rischi per la salute? Secondo Bill Martin la risposta è semplice: allevare i pesci a terra e non in mare o nei laghi. «Le gabbie in acqua sono un delirio», sostiene: «parassiti, malattie, fughe, morìe. Niente a che vedere con le vasche, un ambiente controllato al 100 per cento, con un impatto sulle acque del mare vicinissimo allo zero. Se non lasciamo in pace il mare, Madre Natura si incavolerà sul serio».
L’allevamento di Martin, però, non è a impatto zero sull’aria e la terra, e in più è molto costoso. Ha bisogno di un sistema di trattamento delle acque paragonabile a quello usato da una piccola città, che viene alimentato da elettricità generata con il carbone. L’85 per cento dell’acqua delle vasche viene riciclato e riutilizzato, ma il resto – che contiene quantità elevate di ammoniaca e di escrementi dei pesci – finisce nei depuratori della zona, mentre i rifiuti solidi voluminosi vengono spediti in discarica. Per recuperare l’acqua perduta, più di un milione di litri vengono prelevati ogni giorno dalle falde acquifere.
Martin punta ad aumentare la quota di riciclo fino al 99 per cento e a produrre in proprio energia elettrica a basse emissioni catturando il metano dai rifiuti organici degli animali. Ma occorreranno anni per raggiungere questi obiettivi. E benché Martin sia convinto che il suo sia il sistema del futuro, sono ancora poche le aziende che allevano pesci in vasche a terra.
QUALCHE MIGLIO al largo delle coste di Panama, Brian O’Hanlon sta andando nella direzione esattamente opposta. In una serena giornata di maggio, stiamo sdraiati sul fondo di un’enorme gabbia sommersa, quasi 20 metri sotto la superficie blu cobalto del mar dei Caraibi. Sopra di noi 40 mila giovani cobia di circa quattro chili ciascuno eseguono una lenta e ipnotica piroetta, scontrandosi con le bolle che escono dai nostri erogatori. A differenza delle tilapie di Martin o dei salmoni da allevamento, questi pesci hanno molto spazio a disposizione.
O’Hanlon ha 34 anni e discende da tre generazioni di commercianti di pesce di New York. Nei primi anni Novanta il crollo della pesca dei merluzzi dell’Atlantico settentrionale e i dazi d’importazione sui salmoni norvegesi fecero fallire la ditta di famiglia. Il futuro è nell’allevamento, dicevano sempre suo padre e gli zii, così Brian cominciò già da adolescente ad allevare lutiani rossi in una grossa vasca nella cantina della casa dei genitori.
Oggi O’Hanlon gestisce il più grande allevamento ittico in mare aperto del mondo. La sua azienda, Open Blue, ha circa 200 dipendenti, un grande vivaio a terra e una flotta di barche che fanno la spola con le gabbie giganti, una dozzina, che tutte insieme possono contenere fino a un milione di cobia. Specie nota agli appassionati di pesca sportiva, il cobia viene pescato a fini commerciali solo in piccole quantità – in natura è un pesce solitario – ma la straordinaria rapidità con cui cresce lo rende ideale per gli allevamenti. Come il salmone, è ricco di acidi grassi omega-3, e se ne ricava un filetto tenero, bianco e burroso che, a sentire O’Hanlon, può soddisfare anche gli chef più esigenti. L’anno scorso l’allevatore ha consegnato 800 tonnellate di cobia ai ristoranti di lusso di tutti gli Stati Uniti; l’anno prossimo spera di raddoppiarne la quantità e cominciare finalmente a fare profitti.
La cosiddetta maricoltura al largo è un’attività molto costosa in termini di gestione e di manutenzione. Mentre di solito gli allevamenti di salmoni sono annidati in piccole insenature protette, sulle gabbie di O’Hanlon possono abbattersi onde alte fino a sei metri. Ma è proprio quello il punto: nelle gabbie in mare aperto, meno affollate e costantemente attraversate da onde e correnti, la diluizione dell’acqua previene malattie e inquinamento. Finora O’Hanlon non ha dovuto usare antibiotici per curare i suoi cobia, e i ricercatori della University of Miami non hanno trovato tracce di residui organici fuori dalle gabbie. Si ipotizza che vengano mangiati dal plancton, visto che in mare aperto le acque sono povere di nutrienti.
O’Hanlon lavora a Panama perché negli Stati Uniti non è riuscito a ottenere una licenza: i timori dell’opinione pubblica per il rischio di inquinamento e l’ostinata opposizione dei pescatori hanno reso gli stati costieri americani piuttosto guardinghi nei confronti degli allevamenti ittici in genere. Ma O’Hanlon è convinto di essere un pioniere. «Questo è il futuro», mi dice quando risaliamo sul suo skiff arancione. «Se l’industria vuole continuare a crescere, soprattutto nelle zone tropicali, deve aprirsi a nuove soluzioni». Secondo lui, gli allevamenti basati sul ricircolo dell’acqua, come quello di Martin, non possono produrre quantità sufficienti di biomassa: «Non ce la faranno mai ad aumentare la produzione fino a soddisfare la domanda del mercato. Per essere redditizi devono diventare come gli allevamenti intensivi di bestiame. A quel punto hai tanti di quei pesci ammassati l’uno sull’altro che non puoi far altro che cercare di mantenerli in vita. Di certo non puoi preoccuparti di dar loro l’ambiente migliore per vivere».
CHE SIANO ALLEVATI IN MARE APERTO o in vasche depurate, i pesci devono essere nutriti. Il vantaggio è che mangiano molto meno degli animali terrestri: hanno un fabbisogno calorico minore perché sono animali a sangue freddo e perché, vivendo in un ambiente liquido, devono contrastare di meno la forza di gravità. Per produrre un chilo di pesce d’allevamento basta circa un chilo di mangime; per i polli il rapporto è di 2 a 1, per i suini di 3 a 1, per i bovini di 7 a 1. Se cerchiamo una fonte di proteine animali che soddisfi i bisogni di nove miliardi di persone senza dilapidare troppo le risorse del pianeta, l’acquacoltura – e in particolare l’allevamento di specie onnivore come tilapie, carpe e pesci gatto – sembra la scommessa più sicura.
Ma c’è un problema. Alcuni dei pesci d’allevamento più apprezzati sono voraci carnivori. In natura il cobia si nutre di piccoli pesci e crostacei che gli forniscono una perfetta combinazione di nutrienti – tra cui anche gli omega-3 tanto consigliati dai cardiologi – e sostentano quella crescita rapida che lo rende un pesce da allevamento ideale. Gli allevatori come O’Hanlon nutrono i loro cobia con mangimi in pellet composti fino al 25 per cento da farina di pesce, fino al 5 da olio di pesce e per il resto da derivati dei cereali. Farina e olio di pesce si ricavano dalle cosiddette specie foraggio, come le sardine e le acciughe che formano enormi banchi al largo dell’America del Sud. Questi bacini di pesca sono tra i più ricchi del mondo, ma sono anche soggetti a tracolli spettacolari.
Dal 2000 a oggi la quota destinata all’acquacoltura rispetto al totale del pesce foraggio pescato è quasi raddoppiata. Oggi gli allevamenti divorano quasi il 70 per cento della farina di pesce e quasi il 90 per cento dell’olio di pesce prodotti nel mondo. La domanda è così alta che i pescherecci di molti paesi hanno cominciato a battere i mari antartici, dove ogni anno vengono pescate oltre 200 mila tonnellate di krill, alimento base di pinguini, foche e balene. Anche se la maggior parte del krill è ancora usata in altri settori, come quello farmaceutico, chi si oppone all’acquacoltura ritiene che l’idea di razziare la base della piramide alimentare per “fabbricare” proteine a buon mercato sia, dal punto di vista ecologico, una follia.
Certo, l’efficienza degli allevamenti è aumentata, grazie alla scelta di pesci onnivori – come appunto la tilapia – e all’uso di mangimi a base di soia e altri cereali. Oggi il mangime per i salmoni è composto solo al 10 per cento da farina di pesce. La quantità di pesce foraggio utilizzata per un chilo di prodotto allevato è diminuita quasi dell’80 per cento rispetto a 15 anni fa.
Più complicato, invece, è sostituire l’olio di pesce, portatore dei preziosi acidi grassi omega-3 che, prodotti in natura dalle alghe, attraversano poi tutta la catena alimentare accumulandosi in alte concentrazioni lungo il percorso. Alcune aziende di mangimi hanno già cominciato a estrarli direttamente dalle alghe: in questo modo si riesce anche a ridurre le quantità di DDT, policlorobifenili e diossine che si accumulano nei pesci d’allevamento. Un’altra soluzione potrebbe essere modificare geneticamente la colza in modo da aumentare il livello di omega-3 presente nell’olio.
DAL PUNTO DI VISTA ECOLOGICO la questione dell’alimentazione dei pesci potrebbe essere più importante di quella della posizione degli allevamenti. «Non è che si pensa di spostare l’acquacoltura sulla terraferma o in mare aperto perché è finito lo spazio lungo le coste», sottolinea Stephen Cross della University of Victoria, nella Columbia Britannica. Gli allevamenti di salmone, spiega, sono diventati tristemente famosi per il pesante inquinamento delle acque costiere, ma oggi producono dieci o quindici volte di più rispetto agli anni Ottanta e Novanta e inquinano molto meno. In un angolo nascosto dell’isola di Vancouver, Cross sta sperimentando un metodo nuovo e ancora meno dannoso.
L’ispirazione gli è venuta dall’antica Cina. Più di mille anni fa, all’epoca della dinastia Tang, i contadini cinesi svilupparono un elaborato sistema di policoltura nelle loro piccole fattorie di famiglia: allevavano anatre e maiali e ne usavano il concime per coltivare alghe di stagno di cui poi si nutrivano le carpe. In seguito questi pesci onnivori venivano liberati nelle risaie inondate, dove divoravano parassiti ed erbe infestanti e concimavano il riso, per poi diventare cibo a loro volta. La policoltura divenne il fondamento della tradizionale dieta a base di riso e pesce che ha nutrito milioni di cinesi per secoli. È utilizzata ancora oggi in più di tre milioni di ettari di risaie in tutto il paese.
Cross sta sperimentando un sistema di policoltura di sua invenzione in un fiordo sulla costa della Columbia Britannica. Ha solo una specie da nutrire: Anoplopoma fimbria, un pesce lucente e robusto, endemico del Pacifico settentrionale, noto come black cod o sablefish. Un po’ sotto corrente rispetto alle gabbie, ha collocato reti sospese piene di ostriche, capesante, cozze e altri molluschi locali, che si nutrono delle sottili escrezioni organiche dei pesci. Accanto alle reti, Cross coltiva lunghi filari di kelp, alghe brune usate per il sushi, le zuppe e anche per la produzione di etanolo. Queste piante filtrano ulteriormente l’acqua, trasformando in tessuto vegetale quasi tutti i nitrati e il fosforo emessi dai pesci. Sul fondo marino, 25 metri più in basso delle gabbie dei pesci, i cetrioli di mare, considerati prelibatezze in Cina e Giappone, ingurgitano i rifiuti organici più pesanti tralasciati dalle altre specie. Lo studioso sostiene che, sostituendo il tipo di pesce, questo sistema potrebbe essere adattato agli allevamenti esistenti, con il duplice scopo di filtrare le acque e di produrre cibo e profitti extra.
Dall’altro lato del continente, nel Rhode Island, Perry Raso gestisce invece una monocultura: alleva 12 milioni di animali e non deve nemmeno preoccuparsi di nutrirli. Raso fa parte di una nuova generazione di allevatori di ostriche che sta ottenendo riconoscimenti da molte associazioni ambientaliste. Una delle soluzioni per sfamare il mondo in maniera sostenibile, sostengono gli esperti, è imparare a mangiare anche le specie che occupano gli strati più bassi della piramide alimentare: i molluschi sono soltanto un gradino più su della base. Oltre a produrre un alimento salutare, povero di grassi e ricco di omega-3, gli allevamenti di molluschi ripuliscono l’acqua dalle sostanze nutritive in eccesso.
Raso ha cominciato ad allevare ostriche quando era ancora all’università; poco dopo ne aveva abbastanza da venderle nei mercatini locali, e oggi serve 800 clienti al giorno nel suo Oyster Bar. «All’inizio ero a disagio tra tutti questi ambientalisti», racconta, «ma poi ho cominciato a guadagnare, ho imparato a mangiare prodotti a chilometro zero e sai una cosa? Erano proprio gustosi». Nel frattempo la University of Rhode Island lo ha spedito a tenere corsi di formazione in Africa, dove l’acquacoltura è in rapida crescita e c’è molto bisogno di proteine salutari a prezzi accessibili.
Qualche centinaio di chilometri più a nord, nelle acque gelide e pulite al largo della Casco Bay, Paul Dobbins e Tollef Olson, due pescatori del Maine, sono scesi ancora più in basso nella piramide alimentare. Dopo aver assistito impotenti alla chiusura di una zona di pesca dopo l’altra e alla conseguente devastazione dei piccoli centri costieri, nel 2009 i due hanno avviato il primo vivaio di kelp degli Stati Uniti. Sono partiti con 900 metri lineari di alghe e l’anno scorso ne hanno coltivati 9000, raccogliendo tre specie diverse che possono crescere fino a 13 centimetri al giorno anche in inverno. La loro azienda, la Ocean Approved, vende alghe congelate a ristoranti, scuole e ospedali della costa del Maine, che le usano come ingrediente particolarmente nutriente per pasta, contorni e insalate. A visitare l’allevamento sono venute delegazioni di operatori da Cina, Giappone e Corea del Sud: in estremo Oriente il business delle alghe marine vale cinque miliardi di dollari.
Finiremo tutti col mangiare kelp? «Noi la chiamiamo “la verdura virtuosa”», sostiene Dobbins. «Produciamo un cibo nutriente senza bisogno di terra, acqua dolce, fertilizzanti o pesticidi. E in più contribuiamo a mantenere pulito il mare. Pensiamo che il mare sarebbe d’accordo».
Collaboratore del magazine, Joel K. Bourne, Jr. sta scrivendo un libro sul cibo.