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 2014  giugno 05 Giovedì calendario

RITORNO A ROMA DOPO L’APOCALISSE TRA LE MACERIE DI UNA CITTÀ ASSENTE


Il 13 giugno si compiono cento anni dalla nascita di Anna Maria Ortese. Una scrittrice che ha la capacità di apparire e scomparire, portata in palmo di mano e poi dimenticata per anni mentre era viva, ma anche dopo morta, trascurata poi eccola che si affaccia timida e ironica da una porta socchiusa e dire sottovoce la sua.
Casualmente, ma forse non proprio, visto che si avvicina la data in cui avrebbe compiuto gli anni , mi sono trovata fra le mani una rivista del ‘47 dal titolo semplice e nudo: «Sud». Dentro leggo una storia del reame di Napoli di Pietro Colletta, un saggio appena tradotto di Jean Paul Sartre, un racconto di Dante Troisi, una cronaca di Aldo De Jaco, dei disegni di Mancini, Gemito, Crisonio, una poesia di Dylan Thomas e un lungo articolo di Anna Maria Ortese che racconta il suo ritorno in una Roma svuotata e ferita dalla guerra.
Appena scesa dal treno a Termini, prende un autobus per piazza del Popolo e da lì si reca in via Margutta, dove ha abitato anni addietro. Bussa alla porta di un amico pittore, indicato solo con una A. Il pittore vive con la moglie C., che la accoglie con un abbraccio. Sarà ospitata in una «minuscola cabina» dove c’è giusto il posto per un lettuccio, senza nemmeno il comodino per la lampada, che sta posata per terra.
La sera stessa la troviamo, stanca e svogliata, ospite di una festa in maschera dove incontrerà scrittori e artisti romani: «Una cortina di fumo fluttuava come una tenda di seta grigia. Uomini alti e seri come Calvino erano mascherati da lattante e traevano da un fischietto incollato alle labbra lamentevoli e teneri suoni». Un musicista le viene incontro travestito da valigia. Una ragazza la sfiora: è avvolta in un «incantevole e smagliante costume ungherese, niveo e coperto di fiori come fosse abitata dagli spiriti».
Anna Maria rimane tutta la sera in disparte, appoggiata a una scaletta di legno, osservando la folla dei «cinematografari e dei fotografi che si distinguevano per la sicurezza crudele dei loro sguardi… sputavano e fumavano come se fossero del tutto soli». Ma avrà veramente vissuto quella serata bizzarra, o è stato un sogno? «Non nego di avere visto io stessa queste cose. Ma tutto ciò che si vede è forse vero?», si chiede pensosa. E si tratta di una domanda sincera, che riguarda tutta la letteratura. Fino a che punto è lecito inventare, forzare la realtà, interpretarla, darle un ordine e un senso? Ripenso a un suo bellissimo racconto che si trova nel libro Il mare non bagna Napoli , e si intitola «Gli occhiali». Una ragazzina, Eugenia, abita nella periferia napoletana, in un palazzo degradato, sporco, dove alloggiano «poveri cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione», ma lei vi si muove come se fosse in un castello meraviglioso. Il fatto è che, essendo quasi cieca, Eugenia non vede ciò che la circonda. Il suo sguardo smussa i contorni, crea un alone sfumato sulle brutture che, come per miracolo, le appaiono belle e sognanti. Un giorno le regalano un paio di occhiali. E finalmente la bambina vede il luogo dove abita. E lo trova talmente brutto e odioso che decide di gettare via gli occhiali. Tutto ciò che si vede è forse vero?
Il giorno dopo scopriamo Anna Maria Ortese in giro per le strade bombardate di Roma, in cerca di librerie. Vorrebbe acquistare un libro di Krishnamurti, «quel piccolo uomo dai capelli divisi in mezzo che anni fa, per una edizione ormai introvabile, scriveva come il perfetto iniziato debba sentirsi a servizio di tutto ciò che è vivente e moltiplicarsi in atti cortesi perfino agli animali e alle piante». Ma nessun libraio conosce Krishnamurti. Così si decide per un romanzo di Sartre.
Quando rientra dal pittore, che di recente è stato a Parigi , gli chiede com’era la città. Le risponde la giovane moglie che sta friggendo nella minuscola cucina, «sì, ci siamo stati». «E com’era?». «Non l’abbiamo trovata. Si dice che ci sia Parigi, ma è invisibile». «E Sartre l’avete incontrato?». «Anche lui, come la città, si dice che ci sia, ma nessuno l’ha visto». Siamo ancora a chiederci se ciò che si vede esista per davvero, come la piccola napoletana del racconto?
Anche Roma dicono che ci sia, ma forse non esiste, dichiara la giovane scrittrice. «Sono ormai vari anni che è assente», commenta il pittore amico. «E dov’è? Il popolo lo sa?». «No, il popolo non lo sa. Mangia quando può e legge tutti i giornali che gli promettono un mangiare migliore. È un popolo sano, ha il rispetto delle cose che si toccano, è convinto che ogni bistecca contenga una certa quantità di anima, dell’anima che gli spetta».
Ma le città perdono così facilmente l’anima?, chiede lei, e lui risponde che le anime emigrano, vanno altrove. Per esempio l’anima di Parigi vive in incognito a New York; quella di New York vive a Shanghai e quella di Shanghai sta a Napoli. «Dopo ogni guerra succede così», riflette la Ortese: «Il cielo si fa sempre più lontano. Arte e poesia, avvolte in coperte portate dalla prigionia, nascondono il volto fra le ginocchia, agli angoli delle strade».
Un altro giorno la vediamo di nuovo gironzolare sotto la pioggia per le strade di Roma, avida di ricordi e di pace. «La gente mi veniva incontro a ondate, mare di carne e di stoffa, e io fissavo tutti, uomini e donne, per vedere cosa c’era nei loro occhi». Ma non trova altro che pupille cieche e facce frustrate. A mezzogiorno, quando finalmente la pioggia si dirada e il sole «mette un po’ di miele sulle case», si trova a Trinità dei Monti, dove si siede su un gradino per riposare. Ed ecco che le viene di pensare a Moravia, «il migliore esponente della vita interiore della città di Roma». Ricorda di averlo visto l’ultima volta in casa Bellonci, a viale Liegi, in mezzo a un nugolo di scrittori, scrittrici, giornalisti, artisti, che si radunavano per parlare di letteratura e prendere un modesto tè nero. «Visi morbidi e accenti raffinati, un che di affettuoso e prudente che incantava, come un saggio di ciò che potrebbe essere la vita cittadina — cultura e piacere — ove non esistessero i sogni, il sangue, la febbre del futuro, una società devastata, l’orrore del presente, la stanchezza, la paura, la miseria, la guerra...». E descrive spiritosamente alcuni personaggi che la colpiscono: Elsa De Giorgi, «un uccello dalle lunghe penne rosse»; Alba De Céspedes, grande lavoratrice che «portava a Roma l’affaccendata Milano»; Palma Bucarelli, «dall’occhio che osserva ogni particolare»; Paola Masino, «pallidissima, bella, in vesti povere e nere»; la mitica Aleramo, che compare improvvisa portando con dignità il suo «tramonto vago e meraviglioso».
In quella folla «minuta e preziosa», Moravia «spiccava per non so quale triste maestà». Eppure se lo ricordava diverso, durante la guerra, «smilzo, scavato, audace, terreo, gli occhi brillanti di una cattiveria malata». Lo guarda a lungo e si chiede in cosa sia cambiato. La risposta che si dà, suona tragica: «La capitale morente sembra avere approfittato dell’ingegno piu vigoroso che si trovasse presente alla sua agonia, per afferrarsi a lui, e tramandare qualcosa di sé negli anni avvenire. Disfatta, lo aveva guardato, prima con indifferenza poi con un certo interesse, quindi con avidità. Egli stava dritto e serio al letto della vecchia capitale. Credeva di studiarne la morte. E a poco a poco, senza che se ne avvedesse, dopo averlo a lungo fissato e reso attonito, lentamente, impercettibilmente, essa s’era sollevata e aggrappata a lui con tutta la sua voracità muta, la sua ambizione straziante… Nessuno mi sembrava ora più solitario e triste di lui, che aveva accettato di portare nel suo cervello questa città soffocata, di dare una luce alla sua condanna, un profilo alla sua carne pesante».
Una visione apocalittica. Ma direi che poche scrittrici come la Ortese hanno vissuto con un piede nell’Apocalisse, sempre divisa fra la voglia di buttarsi fra le macerie fumanti, e la voglia di resistere, costruendo rifugi immaginari. La scrittura è certamente il rifugio più illusorio e magnifico che si possa desiderare. E così nasce la figura di quel bellissimo figlio di una nobile famiglia spagnola decaduta, che si innamora di una serva di casa. Ma la serva non è altro che una iguana, con le sue zampette verdi, gli occhi dolci e screziati , il fazzoletto chiuso attorno alle orecchie per non mostrare la lucida testa di lucertola.
Nel bellissimo metaforico racconto dalle stregate luci verdi animalesche, c’è tutta la sapienza e la disperazione di una grande scrittrice che troppo facilmente abbiamo dimenticato. Dovremmo riprendere a leggerla, perché Anna Maria Ortese è capace, coi suoi scritti, di regalarci ancora sottili e profonde emozioni. Anche a chi, giovane e pigro lettore, si è fatto incantare dalla tecnologia e crede di potere sostituire i libri con qualche scintillante giocattolo di vetro e metallo...