Marco Imarisio, Corriere della Sera 5/6/2014, 5 giugno 2014
IL PROFESSORE CATTOLICO CON IL PALAZZO NOBILIARE CHE PREOCCUPA IL PD
VENEZIA — A posteriori era meglio con l’accento. Nel marzo del 2010 Giorgio Orsoni divenne il Mose del centrosinistra veneto, la barriera umana che aveva fermato alle bocche di porto l’alta marea di Renato Brunetta, all’epoca ministro fantuttone e candidato sindaco che sognava per sé una «città-mondo» e si svegliò sconfitto a sorpresa dal suo contrario, un pacato superstite di quell’alta borghesia in fondo orgogliosa del suo localismo, «oltre l’acqua è un altro mondo».
La definizione gli venne stampata sulla fronte durante la festa per la vittoria a Ca’ Farsetti dall’ex prosindaco e suo rivale alle primarie Gianfranco Bettin, e certo non aveva il sapore beffardo di oggi. Era piuttosto un riconoscimento, il grazie del Partito democratico che ancora una volta dopo il sulfureo Massimo Cacciari si era affidata a un esterno per risolvere i suoi problemi interni e conservare il governo di Venezia. «Sarebbe anche una bella giornata, con lo scoperchiamento di un sistema noto a tutti ma che sembrava inarrestabile». C’è un ma, c’è sempre un ma. Bettin non sorride al ricordo di quella frase oggi così beffarda. «Il coinvolgimento laterale di Orsoni sorprende e amareggia. Il Comune non c’entra nulla. L’onestà dell’uomo e il suo lavoro da sindaco neppure. Ma comunque vada, accettare i contributi da un’impresa che ha diviso la città è una pratica molto discutibile». Silenzio. E poi, con un filo di voce. «Ha fatto comunque una cretinata, bella grossa».
Al portone del palazzo nobiliare si affaccia un maggiordomo in divisa. «Il professore e la signora non ricevono». Tutti sanno dove abita il sindaco. È uno degli edifici più belli del Canal Grande, con tre lati esposti a mare e vista che tiene insieme Rialto e Ca’ Foscari. In quell’ormai lontano 2010 prodigo di batoste elettorali, l’avvocato Orsoni divenne l’orsetto del Pd, come disse uno sconsolato Pierluigi Bersani, l’unico capace di ribaltare un pronostico sfavorevole, contro un avversario tutt’altro che amato dalle masse democratiche. Orsoni vinse senza fingere di essere altro da sé. Si presentò come forza tranquilla, anche se aveva poco del socialismo di Francois Mitterrand e molto dei poteri cattolici cittadini, del quale negli ultimi vent’anni era stato costante punto di riferimento, procuratore della basilica di San Marco, buon amico dell’allora patriarca Angelo Scola. E tanto bastò per neutralizzare l’agitato Brunetta.
Il Pd lo accolse per grazia ricevuta, pur sapendo che il «suo» nuovo sindaco non aveva esattamente cromosomi da classe operaia, rivendicava come uno stemma nobiliare la sua non appartenenza ad alcun partito e dovendo scegliere non gli sarebbe dispiaciuto Pier Ferdinando Casini. Orsoni era e rimane un borghese di alto lignaggio figlio di un direttore di banca, che si esprime in un italiano molto ricercato e quindi complicato, docente di diritto amministrativo a Ca’ Foscari, titolare di uno storico studio legale a campo dei Tolentini, ex vicepresidente della Fondazione Cini con sede all’isola di San Giorgio, barca con le insegne della Compagnia della vela, della quale era stato pure presidente.
Negli anni seguenti l’avvicinamento tra sindaco e partito avvenne per attrazione reciproca. Orsoni, uomo così pignolo «che certe volte mi irrito con me stesso», ha governato seguendo la sua incarnazione del nobile veneziano, interessato soltanto alla città, nient’altro. Quando alzava la voce, lo faceva menando i foresti che mancavano di rispetto alla piccola patria. «In troppi pensano che Venezia sia una facile preda da spolpare e basta». Sprovvisto di secondi fini e terze ambizioni, confermava la sua fama di amministratore onesto, dotato di grande cautela, e non dava fastidio a nessuno nel partito. Cosa chiedere di più.
All’improvviso arriva la nemesi giudiziaria. All’improvviso il professore mite ma non arrendevole, quasi sconosciuto fuori dalla cinta daziaria, diventa un problema nazionale, il sindaco agli arresti della città più bella del mondo non è proprio una medaglia sul petto del Pd. «Oggi alla Camera non ho incontrato una persona, una sola, che abbia manifestato un dubbio sulla sua onestà. Ma al tempo stesso la notizia ha fatto il giro del mondo». Andrea Martella, deputato Pd veneziano di terraferma, riassume bene il dilemma democratico. Le diffuse convinzioni personali ancora tengono, seppure crepate da un passo enorme come quello fatto dalla Procura lagunare con l’arresto del sindaco in carica. I pesi e contrappesi della conferenza stampa dei magistrati, che con una certa insistenza hanno relativizzato il coinvolgimento di Orsoni, «non ha fatto alcun atto per favorire il Consorzio», sembrano simili a un riconoscimento postumo, molto più beffardi della vecchia definizione di Bettin.
«Ormai il danno è fatto». Roger De Menech, segretario regionale Pd, renziano della prima ora, prende atto. Non può fare altro. «Orsoni è una bella persona, un amministratore di rara trasparenza, che nulla c’entra con un meccanismo malato in funzione da vent’anni a livello regionale». C’è un ma, nell’Italia dei terremoti giudiziari c’è sempre un ma. «Noi del Pd abbiamo una posizione netta. Se ci sono comportamenti illeciti, allora prenderemo provvedimenti». In queste ore il Pd sta soppesando le possibilità. Le dimissioni del sindaco non sarebbero sgradite, oppure amministrazione per qualche tempo in mano al suo vice. In ogni caso, a Venezia si vota tra sette mesi, qualunque sia l’esito dell’inchiesta. Addio, professor Orsoni.