Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 05 Giovedì calendario

SGRAVI FISCALI PIÙ CORAGGIO


È opinione comune, fra imprenditori, politici e alcuni economisti, che per far uscire l’Europa, e in particolare l’Italia, dalla recessione debbano ripartire gli investimenti pubblici escludendoli dal calcolo dei parametri europei sui deficit eccessivi. Riforme dal lato dell’offerta invece, come le liberalizzazioni dei mercati del lavoro e dei servizi, pur necessarie, sarebbero meno urgenti in quanto non avrebbero effetti immediati sulla crescita.
È indubbio che per ricominciare a crescere debbano aumentare consumi e investimenti. Ma perché quelli pubblici? A noi pare che il modo più efficace — e anche il meno pericoloso perché non soggetto ai rischi dell’intermediazione politica e quindi della corruzione — sia cominciare dalla domanda privata tramite aggressivi sgravi fiscali per le famiglie con redditi medi e bassi.
I consumi delle famiglie italiane sono ancora inferiori di circa l’8 per cento ai livelli pre crisi, mentre la spesa delle pubbliche amministrazioni, al netto degli interessi sul debito e degli investimenti, è salita rispetto al 2007 di oltre 4 punti, dal 44,1 al 48,5% del Prodotto interno lordo (Pil). Come ha evidenziato la settimana scorsa il governatore Visco, nel 2013 i consumi delle famiglie sono scesi ancor più del loro reddito al netto delle imposte, segno evidente di una crescente preoccupazione per il futuro.
Più soldi permanentemente in tasca alle famiglie farebbero aumentare da subito i loro consumi. La parola «permanentemente» è però cruciale: sgravi fiscali temporanei non bastano perché verrebbero in parte risparmiati in previsione di una futura riduzione del reddito netto. Gli 80 euro di maggio sono un piccolo passo nella giusta direzione, ma il governo deve garantire che non saranno gli ultimi, e che questa riduzione di imposte sarà permanente, il che richiede che la spesa pubblica venga ridotta in modo graduale ma altrettanto continuo. Sgravi fiscali immediati, accompagnati da riduzioni progressive di spesa aiuterebbero i consumi, ma aumenterebbero temporaneamente il deficit. Poco male: questi deficit, andrebbero tollerati; non quelli generati per finanziare opere pubbliche, molte delle quali di dubbia utilità e con scarsi controlli anti corruzione, come si è visto nei casi di Expo 2015 e del Mose di Venezia.
Matteo Renzi auspica invece una ripresa delle opere pubbliche per far ripartire la domanda. Bisogna distinguere. Vi sono opere già finanziate e bloccate da lentezze burocratiche. Queste devono essere accelerate, ma non sono molte. In realtà tante opere che non si realizzano sono ferme perché i finanziamenti o non ci sono o comunque non bastano. In Veneto, ad esempio, per completare le 78 opere rimaste incompiute servirebbe oltre mezzo miliardo di euro. Certo, vi sono infrastrutture che potrebbero essere finanziate dalla Banca europea per gli investimenti, alcune certamente utili, come il potenziamento della banda larga, o la creazione di una rete energetica europea.
Opere davvero produttive ben vengano, soprattutto se i finanziamenti dell’Unione le mettono al riparo dall’intermediazione politica nazionale. Ma non illudiamoci che questi investimenti da soli bastino a far recuperare all’Italia altro che una piccola frazione dei milioni di posti di lavoro persi dal 2008 ad oggi. È inutile che Renzi venda le infrastrutture della sua «nuova Europa» come la risposta indolore ad una crisi così grave.
Promettere soluzioni a costo zero è politicamente pericoloso perché crea brevi illusioni, seguite poi da delusioni profonde che si ritorcono contro chi ha promesso troppo e fatto poco. Certamente più domanda quindi, aiutata anche da una politica della Banca centrale europea che eviti un euro eccessivamente forte, come pure un’unione bancaria che riduca le distorsioni nel mercato del credito. Ma senza dimenticare le riforme dal lato dell’offerta. Più domanda non basta se le imprese sono preoccupate da un mercato del lavoro che non funziona, se vessate da costi burocratici elevati, se le imprese più efficienti soffrono per la protezione concessa a quelle che dovrebbero chiudere, se sono incerte sul quadro legislativo e fiscale. La produzione risponde alla domanda se c’e sufficiente flessibilità dei mercati, se le risorse si possono muovere da un settore all’altro seguendo la direzione della domanda interna ed internazionale.