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 2014  maggio 31 Sabato calendario

IL DESTINO DEL COFONDATORE QUEL GENIETTO DIETRO AL GURU


Uscirà in Giappone il prossimo 27 Giugno per Big Comic Superior. Si intitola Steves ed è il manga dedicato alla storia dei due co-fondatori di Apple, Steve Jobs e Steve Wozniak. Il guru e il genio dei programmatori. Già la copertina, con un allampanato Jobs in lupetto nero e un più basso e tarchiato Woz – dal soprannome del brillante informatico – tutto di bianco vestito è esplicita: qui il physique du rôle del guru ce l’ha solo uno. E la storia ha sancito chi.
Un po’ come è accaduto a Mark Zuckerberg. Non era solo al campus dell’Università di Harvard a pensare e progettare The Facebook – questo il primo nome della compagnia. Con lui c’era anche Eduardo Saverin: di origine brasiliana, benestante, primo sostenitore dell’idea dell’amico Mark, finanziata con 15.000 dollari di tasca propria. Ma chiunque abbia guardato il film The Social Network lo sa: il simpatico non è Mark. Saverin, estromesso dalle decisioni strategiche legate al futuro di Facebook, ha portato in tribunale l’ex-amico ottenendo il 5% della azienda e l’etichetta di co-fondatore. Una magra rivincita per chi ci aveva visto lungo, mettendo fondi su un’idea brillante.
Insomma: per parafrasare Hobbes, non solo homo homini lupus. Il vero nemico del fondatore è l’altro fondatore. Ecco cosa insegnano le cyberstars. Tutti leader della contemporaneità in grado, con la propria personalità, non solo di guidarci verso un avvenire sempre più digitale, ma anche di mettere in ombra i colleghi. Perché se è vero che qualcuno nasce con la stoffa del guru, vale la stessa regola per gli uomini ombra.
Spesso geniali, a volte introversi, sono loro, gli eterni secondi, a condividere idee, fatiche e aziende senza mai conquistare sui giornali l’etichetta di ideatore. Davanti alla definizione hanno sempre un “co”, a suggerire che da soli non ce l’avrebbero mica fatta.
La recente classifica stilata da Cnbc per festeggiare il compleanno della compagnia televisiva è una conferma. Oltre alla prezzemolina d’oltreoceano Oprah Winfrey, gli uomini e le donne – poche in realtà – ad aver cambiato il mondo sono proprio loro: Jobs, Gates, Zuckerberg, Brin e Page. Nomi noti in ogni bar. Eppure quasi mai soli al comando.
Nel caso dei due Steve la differenza tra Jobs e Wozniak è quasi un paradigma – spiegato con una battuta nel pilot della serie tv Silicon Valley: il primo è un poser, uno sempre in posa, l’altro un programmatore con gli attributi. Ciascuno rappresenta un modello di leadership diverso: il primo è la guida evocativa, amato dal ragazzino come dalla mamma – per intenderci: la frase «stay hungry, stay foolish» è scritta ormai anche nei bagni dell’autogrill.
L’altro, invece, è l’emblema del genio, quello con il codice in tasca, ammirato da chi di informatica ci capisce e non se ne importa delle foto un po’ fighette – celebre il primo piano in bianco e nero di Jobs. Ma cosa fa la differenza? Quale virtù trasforma un informatico o un imprenditore di successo in un guru? Forse il senso per il sacro marketing che, per esempio, anche Zuckerberg ha mostrato stringendo l’alleanza, malvista da Saverin, con Sean Parker, creatore di Napster. Dopotutto, come scrive Business Insider: «Le grandi idee da sole non bastano. Bisogna commercializzarle».
Non solo comunicazione, però. A rendere uno dei due Steve il grande Jobs è stato, per alcuni, il calvario professionale. Allontanato dalla stessa Apple, infatti ci tornò, come è noto, trionfante dopo il successo della Pixar. Un esilio, il suo, simile a quello vissuto – pur rimanendo sempre in azienda – da Larry Page, uno dei due ideatori di Google. Nicholas Carlson, autore di The Untold Story of Larry Page’s Incredible Comeback, raccogliendo testimonianze e attingendo dal libro dell’ex dipendente Google Douglas Edward (I’m feeling Lucky), spiega le ragioni della crisi e del ritrovato successo di Page. Incapace di stabilire relazioni profonde con gli altri, dotato di una straordinaria mente matematica in grado di trasformare ogni problema, anche quelli di natura emotiva, in un codice binario, Larry Page ha vissuto con sofferenza la prossimità di Eric Schmidt, ex Ceo Google. Non ha però mollato mai la presa e, come racconta il reporter Steven Levy nel suo In The Plex, ha scelto di lavorare su se stesso, arrivando così a pronunciare il discorso che nel quartier generale di Mountain View è ricordato come il momento della svolta.
Nel febbraio del 2013, davanti a tutti i googlers, i dipendenti dell’azienda, in una grande sala bianca al Carneros Inn sulle colline di Napa Valley, Page spiegò come per realizzare le straordinarie ambizioni di Google fosse necessaria una grande armonia. Tra i colleghi soprattutto. Proprio quella serenità che lui stesso non era riuscito a creare. I suoi capelli erano ormai grigi, il segno fisico che Schmidt aveva ragione: Larry non aveva più bisogno della supervisione di un adulto. Era capace di ammettere gli errori, era un leader.
Eppure c’è chi, Vanity Fair per esempio, considera Sergey Brin il vero guru di Google. Secondo la rivista il patto tra i due co-fondatori sarebbe racchiuso in una battuta: Larry fa le cose serie e prestigiose, ma a Davos ci va Sergey. Più estroverso, atletico, amante degli sport e ora anche delle collaboratrici – avrebbe rotto con la moglie per iniziare una relazione con Amanda Rosenberg, coinvolta nel lancio dei Google Glass – Brin, scrive Carlson, era conosciuto già all’Università di Stanford per entrare nell’ufficio dei professori senza bussare alla porta.
Forse è così, serve irruenza per diventare un’icona contemporanea. O gentilezza, come quella che cerca di mostrare Biz Stone, della squadra Twitter, e oggi autore di Things a little bird told me, per lanciare il quale si prodiga in interviste sull’umanità e il valore della tecnologia. Oppure, alla fine, serve quello che Jeff Bezos, fondatore di Amazon, chiama il coraggio di non farsi capire. Insomma: bisogna spararla grossa. E se fosse la paraculaggine, per usare un termine poco noto in Silicon Valley, la dote dei guru da copertina?