Laura Magna, pagina99 31/5/2014, 31 maggio 2014
IL FLOP DEI MINIBOND TITOLI PER POCHI ILLUMINATI
Si chiamano mini bond. Sono le obbligazioni per le pmi (piccole e medie imprese) italiane nate con Monti nel 2012 e perfezionate da Letta un anno e mezzo dopo. Con l’intento di aiutare le imprese in crisi a superare il credit crunch e a reperire nuova finanza per crescere. All’appello, finora, hanno risposto solo 25 aziende, con 34 emissioni del valore complessivo di 3 miliardi. Nomi più o meno noti, come quelli di Gpi, Tesmec, Ivs, Cerved, Sisal. Il taglio medio è di 115 milioni, ma 15 emissioni hanno un valore inferiore ai 10 milioni. E il tasso nominale medio è alto: il 7,29%. Eppure, «uno studio di Cerved dello scorso ottobre 2013», dice a pagina99 Alberto Castelli, partner della società di consulenza Eidos Partners, «individua un universo di 25mila imprese come potenziali emittenti di queste obbligazioni. Che ben si adattano alla tipicità del tessuto industriale italiano, che ha la più densità di pmi in Europa, in una situazione in cui il credito bancario a seguito di Basilea3 si contrae sempre più».
Il mercato potenziale vale, secondo le stime, almeno 100 miliardi. Nel mare magnum delle pmi italiane, candidate alle prossime emissioni sono senz’altro in pole position le 150 società di Elite, il collettore di quotabili selezionate da Borsa italiana: una su tutte, PlasticaAlfa, produttore siciliano di tubi irrigui in plastica super-tecnologica, che ha annunciato l’intenzione di finanziare i suoi ambiziosi progetti di crescita proprio attraverso un minibond, a cui seguirà la quotazione su Aim, tra fine 2015 e inizio 2016. Perché il percorso naturale è proprio questo: dall’azienda familiare alla Borsa, passando per il minibond.
Ma cosa sono i minibond e quanto sono realmente conosciuti? «Per far fronte al credit crunch», spiega Paola Maiorana, partner Kpmg responsabile del capital markets, «il Decreto sviluppo del governo Monti abrogò la norma che vietava di superare il tetto di due volte l’ammontare del capitale sociale per le emissioni delle non quotate. Poi a queste sono stati estesi i benefici fiscali di cui già godevano le quotate». Una procedura più blanda, l’assenza di prospetto informativo e la creazione di un mercato non regolamentato ad hoc, l’ExtraMot, a cui hanno accesso esclusivamente gli istituzionali, hanno fatto il resto. Ma «la partenza», continua Maiorana, «è stata al ralenty. Perché è vero che le banche hanno stretto le maglie, ma hanno continuato a finanziare i migliori clienti, con ciò lasciando poco spazio allo sviluppo di forme alternative di finanziamento». Inoltre, sottolinea la manager di Kpmg, «le realtà più piccole che non godono di rating ottimale di sono dimostrate impreparate ad affrontare il minibond perché emetterlo vuol dire dare informativa finanziaria, perché manca la giusta cultura imprenditoriale e perché la dimensione spesso non consente di sostenere i costi». La resistenza dell’imprenditore italiano medio è dura a morire, «ed è inevitabile», aggiunge Castelli, «soprattutto a fronte dei costi e dell’impegno di risorse che il minibond richiede. Non mancano tuttavia gli imprenditori illuminati che hanno capito quanto questo impegno ripaghi in termini di risorse stabili di finanziamento, di bassa invasività nella governance, di visibilità, di performance e di rapporti con i soggetti attivi nel mercato dei capitali».
Ci sono poi difficoltà oggettive: un’azienda con fatturato di due milioni può emettere minibond, ma «la dimensione ottimale», precisa Alessandro Sannini, ad di Twin Advisor, società neonata specializzata in debt capital market, «perché i costi non siano proibitivi, è di almeno 20 milioni. Inoltre è necessario che l’emittente abbia un bilancio certificato e un piano credibile. In molti dei business plan relativi ai minibond già emessi c’era poca chiarezza: non è uno strumento che può sostituire il circolante, ma serve a fare sviluppo e nella documentazione deve essere spiegato in maniera rigorosa come sarà ripagato. Altrimenti diventa difficile trovare investitori. L’Italia banco-centrica, della politica ingessata e della burocrazia folle, è anche l’Italia piena di belle aziende, il minibond è la concretizzazione del momento ideale in cui la finanza finalmente aiuta l’economia».
Una sorta di deriva etica della crisi che sta facendo bene a tutta una parte «del made in Italy», afferma Andrea Giannelli, partner dello studio legale Legance, «dall’alimentare alla moda all’industria sana e solida e improntata alla crescita, che di fatto prima era esclusa dal mercato dei capitali». L’offerta si appresta a diventare importante, «con diverse operazioni in strutturazione», spiega l’avvocato, «che saranno collocate in private placement a un numero limitato di investitori, con ammontare variabile dai 15-20 ai 150 milioni. Le più rilevanti sono di regola effettuate da gruppi che hanno un marchio forte e sono già solidi, quelle di minore importo da parte di società meno strutturate. Molte nel settore industriale. La varietà è comunque amplissima».
Cosa accade invece sul fronte della domanda? Difficile collocare obbligazioni senza compratori interessati a sottoscriverle. «Negli ultimi mesi», ricorda Giannelli, «sono stati istituti fondi specializzati, una ventina, che hanno fatto raccolta per investire in minibond emessi da imprese italiane, secondo criteri di diversificazione che realisticamente li indurranno ad allocare non più di 10-20 milioni ciascuno per singola emissione». Tra i più importanti ci sono George Muzinich e Duemme dell’asse Mediolanum-Mediobanca. Altri fanno capo alle banche popolari, tra le più attive la Popolare di Vicenza. E poi ci sono nuovi progetti, «come quello di Cassa Depositi e Prestiti, per il tramite del Fondo Italiano di Investimento», dice Giampiero Meschino, Founding Partner di CrescItalia, «che sta effettuando approfondite analisi sui vari fondi di minibond presenti sul mercato, per individuare i più affidabili in termini di rendimento e risultato». Per non dire delle banche d’affari internazionali che dei minibond, nicchia nella nicchia Italia, si sono già accorte. «Questi strumenti», sostiene Marco Palacino, country manager per l’Italia di Bny Mellon Investment Management, «consentono di diversificare ulteriormente i portafogli obbligazionari. È però fondamentale selezionare attentamente la qualità dei titoli. I nostri gestori specializzati in credito societario hanno già individuato alcune emissioni interessanti, come quelle di Cerved Technologies e di Ivs. In entrambi i casi, grandi emissioni da centinaia di milioni di euro fatte da società grandi e sofisticate. Ma guardiamo con attenzione anche i minibond che rimborsano una parte del capitale in anticipo rispetto alla scadenza: ad esempio, una sottoscrizione da 5 milioni con scadenza a 5 anni potrebbe essere rimborsata per metà dopo 3 anni. Un segnale positivo di solidità dell’emittente, e una migliore tempistica di recupero del capitale per l’investitore».