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 2014  maggio 31 Sabato calendario

I CONTRORIFORMISTI – [COSÌ I GIGANTI DELLA FINANZA HANNO SEPPELLITO IL CAMBIAMENTO PROMESSO]


L’ha detto Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale: la riforma della finanza, annunciata con clamore all’indomani della più grande crisi del secolo, sta procedendo troppo lentamente. «Dobbiamo riconoscere – ha spiegato da Washington lunedì 26 maggio – che queste difficoltà nascono anche da una feroce opposizione delle compagnie del settore, e dall’affaticamento che è naturale sorga a questo punto di un lungo percorso». Già, perché l’agenda di riforma della finanza globale, stabilita dai leader delle principali nazioni industrializzate con la Dichiarazione di Washington nel 2008 e rafforzata con la Dichiarazione di Toronto dei grandi 20 nel 2010, presenta numerose ombre tra le luci. Nonostante un consenso mai così ampio per un sistema trasparente, meno fondato sul debito e che cessasse di trovarsi sotto il tallone di istituti bancari troppo grandi per fallire. Negli ultimi anni una pioggia di ricorsi e regolatori incapaci di coordinare i propri sforzi in maniera efficace hanno finito per mettere a repentaglio anche il poco fatto sino a ora. Una vera e propria controriforma finanziaria che lascia il sistema a rischio di nuovi crash.
Nel 2010, quando è stata approvata la riforma della finanza di Obama – il cosiddetto Dodd-Frank Act –, Bart Chilton era commissario alla Us Commodity Futures Trading (Cftc), un’agenzia con il compito di supervisionare gli strumenti finanziari usati nei mercati delle materie prime. Per gli effetti della legge, tra i compiti del Cftc rientrava per la prima volta quello di stabilire i cosiddetti “limiti di posizione”, una misura volta a impedire ai grandi gruppi di ottenere guadagni speculativi dominando un mercato. Salito all’ultimo piano di una delle maggiori borse merci mondiali per discutere il nuovo regime regolamentare, Bart Chilton racconta di essere stato scioccato dall’accoglienza di una schiera di avvocati, ansiosi di spiegare come la Cftc non avesse alcun diritto di intervenire sull’attività della borsa stabilendo limiti di posizione.
A stupire Chilton non fu tanto l’opposizione all’intervento della Cftc (che avrebbe fatto perdere alla borsa numerosi clienti) quanto la motivazione addotta dagli avvocati che lo fronteggiavano. La legge infatti parla chiaro, stabilendo alla Sezione 737 che «la Commissione dovrà, attraverso norma, regolamento o direttiva, stabilire limiti appropriati sulla quantità di posizioni». Eppure il fatto che comparisse la parola “appropriati”, gli venne spiegato, implicava anche una possibilità opposta, ossia che stabilire limiti non fosse affatto appropriato. Come poteva dunque la Cftc decidere di farlo?
Il meeting non proseguì a lungo. Così nell’ottobre del 2011, dopo un processo di consultazione durato più di un anno, la Commissione emise i primi limiti di posizione su 28 materie prime. E due mesi dopo arrivò la causa dei principali gruppi del settore, secondo i quali la Cftc non aveva dimostrato che quei limiti fossero effettivamente necessari o, per meglio dire, appropriati. Affidato a Eugene Scalia, avvocato con una parcella da 1000 dollari all’ora e figlio del giudice della Corte Suprema Antonin Scalia, il ricorso dei privati ebbe vita facile e la Corte Distrettuale di Columbia diede torto alla Cftc – che dopo la sconfitta è riuscita solo nel Novembre 2013 a stabilire una nuova proposta, sensibilmente meno restrittiva e ancora non implementata, di limiti di posizione.
Quello raccontato da Chilton è solo uno degli episodi di una battaglia legale senza precedenti, iniziata da qualche anno nel cuore del settore finanziario, che vede opporsi regolatori e grandi gruppi privati. La sola Deutsche Bank, ha spiegato la scorsa settimana agli investitori il Cfo Stefan Krause, è impegnata in circa 1000 casi giudiziari di valore superiore ai 100 mila euro, sotto la forma di cause legate alla crisi, e circa 180 casi di investigazioni da parte dei regolatori nazionali di tutto il mondo. Tanto che, solo negli ultimi due anni, il gruppo tedesco ha pagato 5 miliardi di euro tra multe e patteggiamenti e accantonato 1,8 miliardi per fronteggiare nel 2014 gli effetti del cosiddetto “Libor Scandal”. Dietro l’accusa di aver creato un cartello per manipolare i tassi di cambio, i regolatori europei hanno infatti già imposto 4 miliardi di euro di multe a gruppi come Hsbc, JP Morgan, Crédit Agricole, Société Générale, Royal Bank of Scotland, oltre ovviamente alla stessa Deutsche Bank. Una somma destinata a crescere al termine delle attuali investigazioni e una volta che le cause civili – già 50 negli Usa – si saranno accumulate.
Si tratta comunque di cifre basse per un’industria che, nei soli Stati Uniti, ha collezionato nel 2011 profitti per mille miliardi di euro. Denaro che i gruppi finanziari hanno in parte reinvestito per fronteggiare le offensive regolatorie, tentando di allungare i tempi dei patteggiamenti, sostenendo fermamente la propria innocenza, evitando di fornire adeguate informazioni sui propri prodotti, oppure minacciando cause a loro volta. Aiutate da un formidabile esercito di avvocati. La sola Deutsche Bank ha dichiarato di aver speso nel 2013 350 milioni di euro per pagare i propri difensori. «Questo è il gioco», ha spiegato alla Washington Monthly Review Batlett Naylor dell’associazione Public Citizens, «quando hai mille avvocati a libro paga manipolare le minuzie è un nonnulla». Basta un verbo, un nome, una frase in una legge da 876 pagine. Ed è sotto questa implicita minaccia che, al maggio di quest’anno, dei 208 atti che servivano per implementare il Dodd-Frank Act, solamente il 54,3% è stato effettivamente attuato.
Ma non va meglio nel resto del mondo. Il Vicker Plan inglese e il Liikanen Plan europeo, le due principali proposte strutturali di riforma che condividono con il Dodd-Frank il principio di separazione delle funzioni bancarie tra investimento e raccolta, non hanno ancora visto la luce. Se per il primo non ci si attendono passi concreti prima del 2019, il secondo – travolto dalle critiche dei grandi gruppi finanziari nelle sedi di Bruxelles – si è tradotto in una “proposta di regolamentazione” della Commissione europea solo nel gennaio 2014 ed è attualmente in fase di discussione.
L’organismo responsabile del monitoraggio delle riforme stabilite dal G20, il Financial Stability Board guidato dal governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney, ha certificato progressi ancora insufficienti in molte delle aree prioritarie di riforma: il ruolo delle banche cosiddette too big to fail, la supervisione del sistema bancario ombra e la regolamentazione dei derivati. Persino il regime previsto da Basilea III, che impone alle banche di aumentare la propria liquidità e capitalizzazione, è considerato largamente inadeguato da molti commentatori, come l’Executive Director of Financial Stability della Banca d’Inghilterra, Andy Haldane.
Così, il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha mostrato, nel suo Global Financial Stability Report del 2012, che l’intermediazione finanziaria rimane oggi ancora largamente intaccata. Il sistema, hanno spiegato gli analisti di Washington, «è ancora eccessivamente complesso, le banche troppo concentrate e interconnesse, inoltre sono stati creati numerosi nuovi strumenti finanziari volti ad aggirare le regolamentazioni». Come se non bastasse, è stato lo stesso Fmi a calcolare che il sistema è retto da un rapporto incestuoso e distorsivo tra pubblico e privato, con gli istituti più grandi che godono di rilevanti sussidi impliciti da parte degli Stati – pari a 200 miliardi di euro nel Vecchio Continente. In questo modo, il sistema rimane esposto a nuove, profonde crisi che richiederanno interventi di salvataggio da parte dei governi, come teorizzato dall’ex segretario di Stato Usa Timothy Geifhner nel suo nuovo libro Stress Test.
Nonostante nell’opinione pubblica la crisi abbia fatto crollare la fiducia verso il settore finanziario a livelli mai così bassi, la politica non è insomma riuscita a sfruttare lo slancio per fare riforme. D’altro canto, analizzando le proposte di riforma su 1779 questioni tra il 1981 e il 2002, un recente studio sulla politica americana condotto da Martin Gilens e Benjamin Page, due ricercatori di prestigiose università come Princeton e Northwestern, ha mostrato che la volontà dei “comuni cittadini” è costantemente sotto-rappresentata nel processo decisionale, tanto che non c’è correlazione tra la probabilità che una riforma venga approvata e le preferenze dell’elettore mediano. Al contrario, quando una proposta di riforma coincide con le preferenze dell’élite economica più ricca, la probabilità che questa venga approvata cresce sensibilmente.
Una dinamica osservata anche dal giovane ricercatore di Chicago, Loukas Karabarbounis, che sulla base di dati Ocse tra il 1975 e il 2001, ha mostrato come le principali riforme nei paesi avanzati abbiano seguito le preferenze dei gruppi più ricchi. Sulla base di questi risultati, Gilens e Page hanno stabilito che i regimi politici moderni assomigliano sempre meno a democrazie maggioritarie e sempre più a sistemi a “pluralismo distorto”, dove alcune voci si sentono molto più di altre. E, per fare sentire la propria voce al Congresso, a partire dall’approvazione del Dodd-Frank, la finanza Usa ha speso 1,5 miliardi di dollari solo in attività di lobbisti registrati, mentre le spese della lobby finanziaria nelle istituzioni europee sono stimate essere di almeno 143 milioni di euro l’anno. Investimenti molto fruttuosi: alcuni ricercatori della University of Kansas and Washington hanno calcolato che, per ogni dollaro investito in attività di lobbying, la capacità d’influenza così acquistata porta alle grandi aziende statunitensi ritorni di circa 220 dollari: il 22.000%. D’altro canto, la dimensione del settore finanziario, che nei paesi più ricchi sta tra il 300 e il 500% del pil, implica conseguenze di breve periodo sul resto del sistema economico che rendono difficilissimo intervenire anche per i governi con le migliori intenzioni riformatrici.
Eppure, spiega Martin Wolf sul Financial Times, il fatto che la fase più acuta della crisi sia lontana non implica che non ci sia necessità di rendere il sistema meno instabile e più flessibile durante le crisi connaturate all’economia capitalistica. Una di queste proposte fu formulata nel 1933 da 40 economisti dell’Università di Chicago. Il cosiddetto “Chicago plan” prevedeva tra l’altro che le banche avessero una garanzia del 100% sui propri depositi, spezzando in questo modo la creazione incontrollata di credito e moneta che, nell’attuale sistema, crea instabilità e crolli del mercato.
Uno studio del 2012 del Fondo monetario internazionale ha stimato che così verrebbe ridotta di molto l’instabilità finanziaria, sarebbero impossibili corse agli sportelli dettate da crisi di fiducia verso le banche, si ridurrebbero fortemente i debiti pubblici e il pil globale aumenterebbe di almeno il 10%. Scommesse su come andrà a finire?