Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 4/6/2014, 4 giugno 2014
IL SIGNIFICATO DI QUEL GESTO UNICO PER OGNUNO DI NOI
Li chiamiamo ancora «manoscritti», e chiamiamo «carrozze» i vagoni dei treni ad alta velocità. Linguisti come Luca Serianni hanno già introdotto il termine più adeguato, «videoscritti»: ma almeno per ora non ha attecchito. A mano, nei fatti, non si scrive quasi più: picchettiamo le dita su ergonomiche tastiere per produrre non solo lunghi romanzi, ma anche le comunicazioni più umili che rendono funzionali i nostri account su social network, what’s app e simili. A questi ci si «iscrive», ma non è mai una vera e propria «in-scrizione»: è un’adesione fatta a colpi di clic e segni convenzionali, che chiamiamo «digitali» non per l’organo con cui le compiamo ma per il tipo di elaborazione che le rende riconoscibili. Quando il computer vuole accertarsi che siamo esseri umani e non ben istruiti macchinari ci sottopone un «captcha»: una sequenza alfanumerica distorta come se l’avesse vergata una mano maldestra. Solo un occhio umano potrebbe riconoscere i suoi caratteri.
Prima si doveva. Ma ora che la manualità ha alternative che coprono pressoché l’intera gamma della scrittura è non solo lecito ma anche doveroso chiedersi che cosa si perda a limitare la scrittura manuale alla sola necessità legale della firma autografa (già sostituita però dal Pin, per esempio nei bancomat). L’esecuzione delle «G» maiuscole o delle «f» minuscole in corsivo ci ha impegnati per ore, alle elementari: qualcuno avrà già detto che sono ore sprecate e costose (per gli stipendi statali alle maestre). Ma di quei gesti possiamo sostituire l’effetto, non il significato: che è quello del linguaggio, nella sua esecuzione irrimediabilmente individuale.
Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 4/6/2014