Paolo Berizzi, la Repubblica 4/6/2014, 4 giugno 2014
“LA MIA NUOVA VITA DOPO LA PRIGIONE ORA SOGNO DI TORNARE A LAVORARE DA GUCCI”
[Intervista a Patrizia Reggiani] –
MILANO.
Questa intervista inizia dalla fine. «Vorrei tanto rientrare in Gucci». Sta scherzando, vero? «No. Mi sento ancora una Gucci, la più Gucci di tutti». Così parlò Lady Gucci, al secolo Patrizia Reggiani, condannata a 26 anni per il delitto del marito Maurizio che della casa di moda fu al vertice. Uscita dal carcere di San Vittore a settembre (dopo 17 anni), la Reggiani si racconta a Repubblica seduta su un divano nello showroom di Bozart, azienda di alta bigiotteria dove verrà a lavorare ogni giorno per tre anni scontando la pena residua convertita in servizi sociali. Camicia a drappi, gilet e borsa colorati, viso disteso. È la prima intervista da quando, il 27 marzo 1995, in via Palestro, Maurizio Gucci fu freddato da quattro colpi di pistola sparati dal killer Benedetto Ceraulo. Un agguato commissionato, secondo i giudici, dalla “Liz Taylor della griffe”, come fu soprannominata: 600 milioni di lire pagati a una banda squinternata per togliere di mezzo l’ex coniuge.
Da dove ricomincia la vita?
«Dal lavoro. Svilupperò l’aspetto creativo, testerò il prodotto. Cose che all’epoca facevo anche per Gucci, dove sogno di tornare... Ho delle competenze, per anni ho fatto shopping in tutto il mondo. Intuisco che cosa vuole il cliente di fascia alta. Vengo dai gioielli, e ai gioielli torno».
In mezzo c’è stato l’efferato omicidio di suo marito. Dieci anni dopo la separazione (1985), lei ha pagato dei killer per ucciderlo. Questo ha stabilito la verità giudiziaria. La sua qual è?
«Rispetto la sentenza e ho pagato la mia pena. Ma, come ho sempre detto, non sono colpevole. Nel senso: è vero che parlando con delle persone dissi, in uno sfogo, “vorrei che Maurizio morisse”. Ma che questo potesse o dovesse succedere davvero, non lo immaginavo. Né lo desideravo».
Messa così era ed è un po’ dura crederle. Infatti i giudici l’hanno condannata a 26 anni. A inchiodarla sono state le telefonate tra la sua amica Pina Auriemma e Ivano Savioni, l’organizzatore del piano.
«Mi hanno intortata per estorcermi denaro. Volevano assicurarsi un futuro sereno coi miei soldi. Ma hanno fatto come la banda Bassotti, alla fine ci hanno arrestati tutti».
Resta quel che è scritto nelle sentenze: e cioè che la mandante è stata lei.
«Se mi fossi messa nei panni di chi ha giudicato, sarei giunta anch’io alla stessa conclusione. Pina raccoglieva le mie confidenze, ma non ho mai commissionato l’omicidio. Lei giocava a poker, aveva grossi debiti. Mi ha chiesto, e ottenuto, 150 milioni di lire. Poi altri 450. Alla fine gliene ho dati 600».
Già. Il prezzo della vita di suo marito. Il compenso per la banda.
«Dopo il delitto mi chiama la Auriemma e mi dice: “Sono stata io a fare tutto”. Ci vediamo nel giardino di un’amica comune. In quell’occasione aggiunge: “Se non basta, uccidiamo anche le ragazze”. Le mie figlie. Avevano 18 e 14 anni. È andata avanti a minacciarmi. E io ho pagato».
Lo ha detto ai magistrati?
«Certo. I miei problemi sono iniziati quando ho fatto entrare nella mia vita la Auriemma (condannata a 19 anni, ne ha scontati 13 e ora è in libertà, ndr). Pina arriva a Milano. Napoletana, divertente, scaltra. Amica mia e di Maurizio. Vuole aprire un negozio Gucci a Napoli, le faccio ottenere la licenza. Si allarga, chiede soldi, mi presenta Savioni, portiere d’albergo. Mi dice: “Può fare il magazziniere per te”. Poi arriva quella mattina del 27 marzo ‘95».
È vero che covava rancore verso Maurizio Gucci perché dopo la separazione voleva risposarsi con la compagna Paola Franchi e lei temeva di perdere lo status di “signora Gucci”?
«No, nessun rancore. Io e Maurizio ci rispettavamo, mi è arrivata la richiesta di divorzio dopo 11 anni: e con quella, una buonuscita fantastica. Soldi per me e per le nostre figlie. Non avevo motivi per volergli male. Se a volte mi sono sfogata con delle persone che ritenevo amiche, è per normali sofferenze di donna e di madre».
Che cosa ha detto in tutti questi anni alle sue figlie (Alessandra, 37 anni, vive a Bruxelles; Allegra, 33, sta a Sankt Moritz, ndr)?
«Non mi hanno mai chiesto nulla. Mai entrate nella vicenda. Sono state ammirevoli, forti. Mi hanno rispettato. Il loro amore e quello di mia madre con cui vivo, ha 87 anni, non si sono mai interrotti. Anche le grandi amicizie: a parte due, ci sono ancora tutte».
E l’alta società milanese? Le ha girato le spalle?
«Mi sto riaffacciando adesso alla mia Milano. In giro mi fermano e mi offrono il caffè. Ma l’umanità vera l’ho conosciuta in carcere. Ora voglio vivere come una donna normale».
Di lei si ricorda questa dichiarazione, tre anni fa, quando le concessero la semilibertà: «Preferisco stare in carcere che lavorare. Non ho mai lavorato in vita mia».
«Non è che non volessi lavorare. È che il percorso era disagevole: uscire da San Vittore, dormire in carcere a Opera, tornare a casa dopo il lavoro. Un caos. Meglio oggi che lavoro e torno a casa mia».
Una recente fotografia la ritrae a passeggio in via Montenapoleone con il suo pappagallo “Boh” sulle spalle. Non le pare un po’ provocatorio per una detenuta condannata ai servizi sociali?
«J’aime épater le bourgeois («mi piace sbalordire»). Sono anticonvenzionale. Così capisco subito se riscuoto simpatia o disapprovazione».
Scusi, ma i servizi sociali non prevedono anche un lavoro alla Caritas?
«Lì sto ancora aspettando. Mi hanno detto che forse non servivo più. Vediamo».
Paolo Berizzi, la Repubblica 4/6/2014