Bernardo Valli, la Repubblica 4/6/2014, 4 giugno 2014
NELLA SPAGNA DEL RE DECADUTO
MADRID
La fine di un regno non implica la fine della monarchia. La prima è un episodio, la seconda una svolta istituzionale, nel passato storico una rivoluzione. Immergendoti lunedì sera nella manifestazione della Puerta del Sol ti potevi accorgere che l’abdicazione di Juan Carlos ha provocato un sussulto, molte emozioni contrastanti, ma non rischiosi traumi popolari.
È la storia della decadenza di un re, un volta amato e ammirato, contro il quale rumoreggia adesso la piazza. Con prudenza. Persino con un malcelato rispetto. Ricavo questa impressione dalla folla su cui ondeggiava qualche bandiera della Repubblica sconfitta da Franco negli anni Trenta. C’era nostalgia, tanta e rispettabile, non solo tra gli anziani, ma non c’erano tracce di collera. Non era gente in preda alla rabbia sovversiva, che talvolta non è priva di nobiltà. Niente di tutto questo. Sembrava una festa. Un’occasione per esprimere sentimenti tenuti in serbo, ma non nascosti, da decenni. S’era aperta un’effimera breccia tra la partenza del vecchio re, logorato dai vizi e dall’età, e l’imminente insediamento sul trono del principe delle Asturie, taciturno, riservato, e forse privo della simpatica, irruenta, umanità del padre. Alla Puerta del Sol la gente che sogna la repubblica, ha colto l’occasione per chiedere un referendum istituzionale. Non è la prima volta.
Più che una protesta era un rito inevitabile. Una domanda tuttavia non esaudibile, almeno per ora. Porsi con serietà il problema di un cambio istituzionale accenderebbe forti contrasti, turberebbe la stabilità di cui il paese ha bisogno, sia per uscire dalla crisi economica sia per temperare le richieste d’autonomia, o addirittura secessioniste, di alcune regioni. Catalogna in testa. Nelle ultime elezioni, quelle europee, i partiti con aspirazioni repubblicane hanno tuttavia compiuto seri progressi, e quelli istituzionali, all’opposizione o al governo, non hanno raggiunto insieme neppure il cinquanta per cento. Per la sinistra, che si ritiene la depositaria della vecchia Spagna repubblicana, la manifestazione della Puerta del Sol era una reazione obbligatoria. Dovuta. Rituale, appunto. Neppure le altre dimostrazioni antimonarchiche, dopo l’annuncio di Juan Carlos, in diverse città della Castiglia e della Catalogna, sono apparse aggressive. Anche là ci sono stati richiami nostalgici ed è stata espressa la vaga voglia, più sentimentale che reale, di una rivincita storica. La monarchia è nonostante tutto una conseguenza della sconfitta repubblicana degli anni Trenta. I giovani vanno pero’ oltre i vecchi rancori: non sono in pochi a interrogarsi sul senso che ha una monarchia nell’Europa del XXI secolo.
Questa è per loro la questione chiave che ripropone l’abdicazione del re.
La prima risposta è che il caso della Spagna si presenta come un’eccezione. Noi cronisti che nel ’75 seguivamo gli avvenimenti spagnoli dopo la morte di Franco, giudicavamo la restaurazione della monarchia voluta dal tiranno come la volontà di mantenere al potere i vincitori della guerra civile (1936-1939). E vedevamo nel principe prescelto ( nato nel ’38 a Roma dove fu battezzato dal cardinale Pacelli, futuro e controverso Pio XII) lo strumento di quell’operazione. Non avevamo torto. Quella era la realtà. Il giovane Juan Carlos non era stato recuperato da Franco ed educato, ammaestrato, nelle sue accademie militari, al fine di farne il successore? Il dittatore avrebbe potuto designare il discendente di un altro ramo dei Borbone. Ce ne sono tanti. E perché no un principe falangista? Scegliendo un erede diretto dell’ultimo re di Spagna, premiò anche la docilità di Juan Carlos nei suoi confronti. Diffidente com’era, si convinse di avere trovato il discepolo adatto e fedele nelle idee. E infatti dichiarò nell’ottobre 1969: «Juan Carlos è quello che offre più garanzie per difendere il regime uscito vittorioso dalla crociata». E per lui la crociata era la guerra civile perduta dai repubblicani. Messo sul trono il nuovo re avrebbe avuto quel compito.
Juan Carlos incarnava dunque in apparenza il passato. Era destinato a questo. A garantire la continuità del franchismo, sia pure in veste moderna. Non rappresentava l’avvenire di un paese destinato ad aprirsi all’Europa occidentale democratica, dalla quale era tenuto in una quarantena politica, in verità non troppo severa. Invece il nuovo monarca ha spogliato il vecchio regime, ha consentito che le nuove istituzioni lo disgregassero e ha accompagnato la Spagna verso una democrazia sempre più solida e radicata. Questa è stata la grande sorpresa. Ed è quel ha dato senso, legittimità a una restaurazione monarchica nel pieno del XX esimo secolo. Un’operazione in apparenza antistorica ha contribuito all’equilibrio politico nel periodo di transizione tra dittatura e democrazia. Con il pieno avvento di quest’ultima. È stata l’encomiabile, ammirata impresa di Juan Carlos. Penso che molti spagnoli si siano convertiti più al “juancarlismo” che alla monarchia. Sono diventati più juancarlisti di cuore che monarchici per convinzione. Monarchia e democrazia sono diventati per lungo tempo quasi sinonimi. L’eccezione spagnola risiede proprio in questo, anche se la spiegazione risulta un po’ sentimentale.
Sentimentale fu anche la nostra reazione nel 1981, in febbraio. I cronisti di mezzo mondo accorsi a Madrid in seguito agli avvenimenti del 23 di quel mese, diventarono tutti (o quasi tutti) juancarlisti, se non proprio monarchici provvisori. Nel tardo pomeriggio di quel giorno, alle Cortes, Leopoldo Calvo Sotelo cercava di ottenere la maggioranza per il suo governo, dopo l’inattesa fine di quello presieduto da Adolfo Suárez. Alle 18,23, mentre Sotelo pronunciava le parole “…la transizione si è conclusa…”, il tenente colonnello Tejero, con il tricorno della guardia civile e la pistola puntata, faceva irruzione nelle Cortes seguito da centottanta uomini armati. Prendeva in ostaggio i parlamentari e i membri del governo, costringendoli a sdraiarsi a terra, e relegava in una stanza tenendoli sotto tiro i socialisti Felipe González e Alfonso Guerra, il comunista Santiago Carrillo, ed altri leader politici e generali. L’occupazione delle Cortes era il primo atto di un colpo di Stato al quale si sarebbero dovuti associare i capi militari delle diverse regioni, convinti che il re, successore di Franco, non potesse che accettare un ritorno alla dittatura franchista. E invece nel cuore della notte, all’1, 15, dopo ore di incertezza, Juan Carlos è apparso sui teleschermi in divisa da comandante delle Forze armate, e ha dichiarato che «la Corona, simbolo della continuità e dell’unità della patria, non poteva tollerare l’azione o l’atteggiamento di persone intenzionate a interrompere con la forza il processo democratico ». È stato detto o scritto che in realtà anche Juan Carlos stava preparando un putsch. Una calunnia evidente, poiché come riuscì sventare quello di Tejero del 23 febbraio, nella sua veste di comandante delle forze armate sarebbe riuscito ad attuare il suo.
Per merito del successore di Franco il tentativo di ristabilire il franchismo è stato cosi sconfitto. Questa è la pagina più bella del regno che volge alla fine. Allora ha trionfato il juancarlismo. Il quale col tempo si è rivelato pero’ fragile perché animato da un uomo, con il suo carattere, con i suoi vizi e le sue virtù, e non da un’istituzione stabile, ben equilibrata. È perlomeno quel pensano con apprensione coloro che si preoccupano del dopo Juan Carlos, di quel che accadrà con l’avvento al trono del principe Felipe, promosso Felipe VI. L’interrogativo riguarda la capacità del successore a ridare smalto alla monarchia appannata. Il prestigio è in larga parte svanito come ha rivelato il sondaggio stando al quale il 76 per cento degli spagnoli auspicavano, già in dicembre, le dimissioni del re, e soltanto il 41, 3 per cento avevano una buona opinione di lui. Sei mesi dopo il re si è dunque adeguato agli umori dei suoi connazionali.
O la monarchia diventa trasparente o cesserà di esistere, ha tuonato la deputata socialista Carme Chacon in febbraio nel pieno degli scandali reali. Tra questi l’ abuso di fondi pubblici (milioni di euro)imputato a Iñaki Urdangarin, genero di Juan Carlos; la partita di caccia agli elefanti alla quale Juan Carlos ha partecipato nel Botswana, mentre gli spagnoli subivano le restrizioni della crisi; le scappate amorose con la principessa tedesca, Corinna zu Sayn-Wittgenstein, che rendevano irreperibile il sovrano; i misteri sul suo patrimonio, compreso il denaro lasciatogli in banche svizzere da don Juan di Borbone, il padre ritenuto povero; e ancora i lussuosi regali da imprenditori o principi arabi, come uno chalet nella stazione invernale di Baquiera- Beret, e le due Ferrari offertegli dall’emiro di Dubai. L’impopolarità della casa reale ha irrobustito le file dei repubblicani, che il 14 aprile erano ancora più numerosi per le strade di Madrid di quelli alla Puerta del Sol, lunedì sera. Dove in fondo si notava un certo sollievo, poiché i manifestanti scandivano «il re se ne è andato».
Juan Carlos non si è mai interessato troppo agli scienziati, ai filosofi, agli storici. Non è un intellettuale. Le biblioteche l’annoiano. Si è sempre detto che non legge libri e giornali. Parla molto al telefono, ama le compagnie divertenti, simpatiche, più quelle ricche che quelle povere. Ma ha sempre avuto una grande intelligenza politica. Ha fiuto. È astuto. Sa dimostrarsi umano ed sempre stato sensibile ai mutamenti sociali del paese. Non è mai stato arrogante. Le donne l’hanno sempre interessato. Il sentirsi impopolare l’ha condotto ad abdicare.
L’aver saputo conciliare, con un rapporto di convenienza, monarchia e democrazia, ha assicurato per molti anni a Juan Carlos l’appoggio di larga parte degli spagnoli. Dopo l’impopolarità che ha investito la famiglia reale, i repubblicani e i nazionalismi regionali opposti alla Corona potrebbero assumere una fastidiosa consistenza, con l’avvento di Felipe VI, senza per questo minacciare sul serio la monarchia. Al momento egli è più popolare del padre. Ma ha un carattere più freddo, meno socievole, forse non abbastanza capace di affrontare con disinvoltura gli umori negativi dell’opinione pubblica. Felipe è laconico come la madre Sophia di Grecia. Ha volontà, ha sposato una giornalista divorziata, contro il parere di molti. E ha la formazione di un tecnocrate, uscito dall’università americana. Una bella differenza rispetto al padre.
Bernardo Valli, la Repubblica 4/6/2014