Daniele Martini, Il Fatto Quotidiano 4/6/2014, 4 giugno 2014
AFFARE CASE POPOLARI IL VERO SACCO DI ROMA
Se i sindaci di Roma di destra, centro e sinistra si fossero limitati a far rispettare la legge nella compravendita delle decine di migliaia di case della sterminata periferia romana costruite dalla fine degli anni Settanta sui terreni espropriati dal Comune, oggi le casse del Campidoglio non piangerebbero con un debito che ha sfiorato i 900 milioni di euro. Per decenni quel gigantesco patrimonio immobiliare che va sotto il nome di edilizia popolare è stato un Far West. Intorno a quelle case e sotto gli occhi di tutti è stato organizzato un mercato selvaggio con migliaia di atti di compravendita solo all’apparenza regolari, con perfino i timbri e le firme dei notai al posto giusto, ma effettuati aggirando la legge.
Una mastodontica giostra immobiliare su cui sono saliti in molti. I proprietari delle case popolari in primo luogo, gente in genere con redditi bassi, a cui il Comune aveva concesso di realizzare a poco prezzo il sogno di avere un tetto. Ma ai quali è stato poi regalato un terno secco, permettendogli di vendere quello stesso tetto non a un prezzo contenuto e concordato, considerando che si trattava di immobili che all’origine costavano poco proprio perché realizzati su terreni espropriati e quindi quasi regalati. Ma a prezzo pieno, di mercato. Con un guadagno eccezionale per i venditori, tre o quattro volte il prezzo iniziale. Case pagate a suo tempo meno di 200 milioni di lire, sono state rivendute di recente a 350 mila euro e anche più. Ci hanno guadagnato i politici romani che con le case di edilizia residenziale pubblica si sono fatti molti amici tra gli elettori delle periferie. Ci hanno guadagnato i notai che, fidandosi ciecamente delle attestazioni degli uffici comunali, hanno messo il bollo su atti che alla prova delle aule dei tribunali si stanno dimostrando per quel che sono: illegittimi. Ci hanno guadagnato anche molti tecnici comunali che hanno assistito imperterriti alla fiera e in alcuni casi l’hanno agevolata, se non promossa. E ci hanno indirettamente guadagnato i grandi immobiliaristi capitolini, da Francesco Gaetano Caltagirone in giù, perché se il prezzo delle case a Roma per decenni e prima che arrivasse la falce della crisi aveva toccato livelli di pazzia collettiva lo si deve anche al fatto che l’enorme serbatoio dell’edilizia convenzionata è stato scambiato a prezzo pieno, lasciando che andasse a farsi benedire ogni effetto calmieratore. Chi ci ha rimesso sono state le casse comunali e quindi tutti quei milioni di romani, la maggioranza, che non hanno partecipato alla sarabanda o perché non la ritenevano giusta o perché non erano nelle condizioni di poter partecipare, ma che alle tasse comunali non si sono potuti sottrarre neanche un po’. E ci hanno perso anche migliaia di famiglie romane sotto sfratto (una ogni 191) non più in grado di pagare affitti saliti in media del 160 per cento a causa della speculazione.
Secondo un calcolo prudenziale di Giuseppe Di Piero, presidente di Area 167, l’associazione che si è dedicata anima e corpo alla denuncia dello scempio, insieme all’avvocato che ha sostenuto la causa, Antonio Corvasce, il Comune di Roma ci ha rimesso almeno mezzo miliardo di euro. Il legale ha presupposto che il Comune rispettasse la legge facendo pagare ai trasgressori la multa prevista fino a 4 volte la differenza tra il prezzo giusto, calmierato, e quello realmente preteso dai venditori. Corvasce ha vinto alcuni giorni fa una causa promossa da una privata cittadina che si riteneva danneggiata dal sistema di compravendita usato a Roma per le case di edilizia pubblica. Il tribunale civile della Capitale ha accolto la tesi della cittadina e dell’associazione Area 167 secondo cui “concedere una sorta di patente speculativa in capo al primo acquirente/assegnatario di un alloggio di edilizia residenziale pubblica, costruito su aree espropriate, non può essere considerato interesse pubblico”.
Quando un cittadino compra a buon mercato una casa popolare acquisisce la proprietà dell’immobile, ma con un vincolo forte: non può rivenderlo al prezzo massimo che riesce a spuntare, ma deve accontentarsi di un prezzo calmierato. A Milano, Firenze, Reggio Emilia, Torino, Pisa, Venezia, Ferrara, Bologna, Parma, Cagliari e in molte altre città la legge è stata rispettata. A Roma no. Ora la giunta Marino non sa che pesci prendere: l’assessore all’Urbanistica, Giovanni Cau-, problema c’è ma non sa da che parte cominciare per risolverlo. A scanso di equivoci l’associazione Area 167 gli ha spedito una diffida invitandolo a interrompere una volta per tutte la giostra delle case popolari.
Daniele Martini, Il Fatto Quotidiano 4/6/2014