Giovanni Majnoni, Il Sole 24 Ore 4/6/2014, 4 giugno 2014
FISCAL COMPACT NON È FISCAL DIKTAT
La regola del debito del Patto di stabilità e crescita, che prevede un rientro del rapporto debito/Pil al 60% nei prossimi venti anni, è spesso percepita come vessatoria ed è percezione comune che tra fiscal compact e fiscal diktat ci sia più di un’assonanza. Per valutare se tale percezione sia fondata possiamo ricorrere a un semplice, seppure approssimativo, esperimento, confrontando la "regola del debito" del fiscal compact con un’altra regola del debito con cui milioni di lavoratori hanno dovuto fare i conti per finanziare l’acquisto di beni durevoli, la ristrutturazione di casa, l’educazione dei figli.
La regola domestica è quella del "quinto cedibile" (Dpr 5/1/1950) sui prestiti ai lavoratori dipendenti che vincola a un quinto la quota massima del reddito che può essere dato in garanzia, stabilendo così un rapporto tra debito e reddito, cioè una "regola del debito". Introdotta per favorire l’accesso al credito delle famiglie tutelandone, al tempo stesso, il profilo di spesa da oneri finanziari eccessivi, costituisce un interessante metro di paragone perché semplice, noto a milioni di lavoratori e pensionati, opera del legislatore domestico (e non imposta da altri) e inteso a tutelare il debitore.
Naturalmente il confronto tra le due regole è opinabile, perché nell’intento di ridurre l’errore di percezione (se la regola del debito sia un diktat del creditore o una tutela del debitore) si incorre nell’errore di composizione (quello che si compie trasponendo alla collettività le norme del singolo). Ma l’uso di metriche familiari consente di riportare l’ordine di grandezza di fenomeni altrimenti indistinti, e perciò stesso minacciosi, a una dimensione percettibile e giudicabile.
Equipariamo quindi per un momento lo Stato italiano a un cittadino le cui entrate siano state pari a 748.879 euro (l’importo in miliardi è quello delle entrate delle amministrazioni pubbliche del 2013) e a cui la banca presti al tasso del 4,1% (pari al tasso medio sul debito pubblico nello stesso anno). Si estenda poi la durata massima del prestito dai dieci anni del "quinto cedibile" - un retaggio della ridotta durata dei prestiti bancari della metà del secolo scorso - ai vent’anni che dovrebbero definire la durata di un debito che non si voglia trasferire alle generazioni successive.
È facile verificare con una qualsiasi app finanziaria scaricabile sul proprio cellulare che il valore annuale dell’ammortamento costante di un prestito di 2.068.993 euro (l’importo in miliardi è quello delle Amministrazioni pubbliche a fine 2013) di durata ventennale al tasso del 4,1% è pari a 153.590 euro e cioè, curiosamente, esattamente uguale al 20% delle entrate delle amministrazioni pubbliche nel 2013. In altre parole, il livello del debito pubblico del nostro Paese è oggi pari a quello massimo che il legislatore italiano consentirebbe a un ipotetico cittadino "Stato italiano" in base ai criteri del quinto cedibile su una durata ventennale. La "regola del quinto" vieterebbe quindi ogni indebitamento aggiuntivo perché incompatibile con il mantenimento di un’adeguata spesa pubblica per finalità sociali negli anni a venire e con l’affrancamento della prossima generazione dal debito esistente.
La regola - pensata per gli individui - trascura, tuttavia, alcuni aspetti peculiari del reddito dello Stato: che esso non è soggetto al ciclo vitale delle persone fisiche e può quindi crescere indefinitamente, che esso può essere aumentato per decreto inasprendo la tassazione e, infine, che il moltiplicatore del reddito consente l’autofinanziamento parziale della spesa in disavanzo. L’errore che commetteremmo oggi trascurando questi elementi - cioè valutando il debito pubblico italiano in un’ottica privatistica - sarebbe forse modesto in considerazione della bassa crescita del reddito nominale italiano, della pressione fiscale difficilmente incrementabile e dei ridotti moltiplicatori della spesa. In una prospettiva di più lungo periodo però questi fattori potrebbero divenire rilevanti. Quindi se pur convenissimo con la "regola del quinto" che gli attuali livelli del debito pubblico siano quelli massimi oggi accettabili, come valuteremmo il meccanismo di rimborso della "regola del debito", è cioè l’obbligo di convergere a un rapporto debito/Pil del 60% in venti anni?
La riduzione del rapporto debito/Pil dal 132,6% al 60% entro il 2035, equivale a poco più di un dimezzamento del rapporto debito/entrate (dal 270,3% al 125,8%), a parità di rapporto entrate/Pil. Una prima osservazione è quindi che la regola del debito chiede allo Stato italiano di dimezzare il proprio debito nell’arco di un ventennio, non di estinguerlo. Ne consegue un dimezzamento dell’avanzo richiesto - dal 20% al 10% delle entrate - che fa della "regola del debito" non già una "regola del quinto" ma una "regola del decimo o meno". Una regola, cioè, che consente di ridurre la quota delle entrate da destinare al rimborso del debito da "un quinto" a "un decimo", se Pil ed entrate nominali rimangono costanti, e a "meno di un decimo" se entrambi crescono.
La seconda osservazione è quindi che tale quota si ridurrebbe ben sotto "il decimo" fino ad azzerarsi se la velocità di crescita del reddito crescesse fino a superare nettamente quella degli interessi. Una regola, insomma, che con una crescita nominale del 3% può essere rispettata con il semplice pareggio strutturale di bilancio, come recentemente ricordato dal Governatore della Banca d’Italia.
Tornando al quesito iniziale, la "regola del debito" europea misurata con la metrica "del quinto cedibile" non appare arbitrariamente punitiva ai danni del debitore domestico. Si direbbe al contrario che essa bilanci le contrapposte esigenze di tutela della generazione presente (da un debito eccessivo) e di quelle future (dalla traslazione del debito) e che additi nella crescita economica la variabile che può consentirne una composizione. E se per quest’ultimo motivo la regola del debito non può che essere valutata congiuntamente con le opportunità di crescita, sarebbe certamente arbitrario vedere nel processo che essa delinea una imposizione dell’Unione o dell’Eurozona ai danni del nostro Paese.
Giovanni Majnoni, Il Sole 24 Ore 4/6/2014