La Gazzetta dello Sport 4/6/2014, 4 giugno 2014
TUTTO IL MONDO DI ARU
Due giorni dopo aver brindato sul podio di Trieste per il terzo posto al Giro d’Italia, Fabio Aru, la giovane speranza del ciclismo italiano per le grandi corse a tappe, ha portato il suo sorriso e la sua felicità in Gazzetta. Ad accompagnarlo Paolo Tiralongo, amico e compagno di squadra, Beppe Martinelli, il diesse dell’Astana, la fidanzata Valentina e il manager Alex Carera. È stata l’occasione per una lunga chiacchierata non solo sul Giro, ma anche per andare alla scoperta del mondo di questo ragazzo sardo che ha già fatto breccia nel cuore degli appassionati.
Aru, da ragazzino, quando ha iniziato, ipotizzava di diventare qualcuno nel ciclismo?
«No, però la passione per la bici è stata subito travolgente. Passavo giornate intere a pulirla, a metterla in ordine. È solo grazie alla passione che sono riuscito ad andare via da casa. La passione mi ha spinto a fare sacrifici che mai avrei pensato».
Quale è stata la sua prima squadra?
«La prima a 15 anni è stata la Mtb Piscina Irgas. Dopo pochi mesi sono passato alla Ozierese. La maglia era quella della Carrera, quella tipo jeans che aveva usato anche Marco Pantani».
Da che famiglia proviene?
«In famiglia produciamo frutta, ma non a livello industriale: arance, mandarini, pesche. I miei genitori si sono laureati tardi, quando già lavoravano. Mamma prima era in banca. Adesso insegna».
Come mai ha scelto il liceo classico?
«Al mio paese (Villacidro, ndr) c’erano il classico e l’agrario. Ho scelto il primo perché pensavo mi desse qualcosa in più a livello di preparazione. Volevo iscrivermi all’università: psicologia o scienze motorie. Ma ho capito che col ciclismo non avrei avuto tempo. Il classico mi ha insegnato a ragionare, mi ha dato qualcosa in più che mi serve anche adesso. Però non pensiate che a scuola mi impegnassi più di tanto, facevo il minimo indispensabile».
Però con una famiglia dedita all’agricoltura...
«Con l’agricoltura, in Sardegna, non si vive. Si sopravvive e basta. Abbiamo provato a fare anche il biologico per dare una svolta, ma era un casino».
I suoi genitori come hanno preso la faccenda di avere un figlio corridore?
«I miei genitori mi hanno sempre assecondato, mi hanno spinto a insistere con gli studi e poi col ciclismo. Però a 18 anni avevo pensato di smettere. Non capivo il senso di tanti sacrifici. A quell’età le tentazioni sono tante, non è facile rinunciare a uscire con gli amici. Per fortuna ho tenuto duro».
Lei ha iniziato con calcio e tennis. Poi è passato al ciclocross e in seguito alla mtb.
«A calcio mi piaceva giocare attaccante, a tennis non ero male. Il mio idolo è sempre stato Nadal. A 15 anni ho cominciato in bici con le ciclocampestri. Sono arrivato anche alla maglia azzurra tra gli juniores. Raduno a Tortoreto Lido: camminata a piedi prima di colazione, poi uscita con la bici da corsa, dopopranzo il cross. Con la bici da corsa in salita staccavo anche gli elite, nonostante avessi 17 anni. Fausto Scotti, il c.t., mi disse che il cross non era il mio sbocco, non avevo il fisico. Ero troppo poco esplosivo».
Quando ha capito che il ciclismo avrebbe potuto diventare la sua professione?
«Al secondo anno da under 23, quando sono arrivato 4° al Giro della Valle d’Aosta».
Il suo direttore sportivo alla Palazzago è stato Olivano Locatelli, personaggio da molti anni sulla cresta dell’onda. Che ricordi ha?
«Da Locatelli ho imparato tantissime cose. Con lui capisci subito se il ciclismo può diventare il tuo mestiere o meno. Persona dura, severa, ma formativa. Se reggi alla sua pressione e ai suoi metodi, ti dà qualcosa in più. Da quando sono passato professionista, paradossalmente la vita è più facile».
Dopo questo Giro la gente si aspetta molto da lei. Avrà più pressione.
«La pressione la sentivo anche al Giro, sono io il primo che se la mette addosso. Mi serve per fare le cose meglio. Però ero anche consapevole di avere fatto un ottimo inverno».
Anche Contador, per sua ammissione, si mette pressione per ottenere il massimo.
«Alberto è il mio ciclista preferito. Lo scorso anno al Tour de San Luis me lo sono visto vicino in gruppo. È stata una grande emozione. Mi sembrava quasi strano essere lì vicino a lui».
Lei spesso ripete di non essere un vincente. Come mai?
«Perché non vinco molto spesso. Anche la prima vittoria da under 23 è arrivata solo al terzo anno. Ma non essere un vincente mi spinge a lavorare ancora di più. Per esempio, avendo iniziato tardi a correre, ho ancora delle lacune. Ancora ora non posso dire di sapere correre. Se c’è da “limare”, per esempio, non sono ancora un drago».
Come sarà d’ora in poi la convivenza con Nibali?
«Vincenzo è una persona intelligente, non ci saranno problemi. Mi ha accolto in squadra molto bene e correre il Giro lo scorso anno con lui è stata un’esperienza impagabile».
Quale corridore prende come esempio?
«Paolo Tiralongo». Mentre lo dice, guarda il compagno, proprio di fronte. «Lui mi ha insegnato e mi insegna molto, tutti i giorni. Lo conosco da quando ero dilettante, anche lui è cresciuto con Locatelli. Da allora per me è un punto di riferimento fondamentale. E se ho preso casa a Ponte San Pietro, in provincia di Bergamo, è per potermi allenare con lui».
Si rende conto di quello che ha fatto al Giro?
«Forse non ancora del tutto. Ci vorrà tempo, però ora il Giro è un capitolo chiuso. Piedi per terra, tranquillità e guardare avanti».
Al Giro ha commesso degli errori?
«Il più grosso è stato essere partito troppo forte nella crono di Barolo. Poi non avere inseguito Quintana giù dallo Stelvio. Ci avevano detto di fermarci e così ho fatto, qualche centinaio di metri prima dello scollinamento. Per fortuna non ho cambiato anche i guanti, altrimenti non sarei più rientrato».
Con Quintana all’attacco c’era il suo compagno Landa: non le ha detto niente via radio?
«No, era una situazione molto concitata».
Il giorno più difficile al Giro?
«Non sempre sono stato bene. A Viggiano per esempio ho sofferto. E sullo Zoncolan ho pensato a difendermi. Ma forse i momenti più difficili sono stati prima del Giro. Sono partito da Belfast con soli 13 giorni di gara. Volevo correre, in primavera non è stato facile aspettare».
Come sarà il prosieguo di stagione?
«Non ne ho ancora discusso con la squadra. Credo farò la Vuelta».
La Vuelta è un ottimo viatico per il Mondiale. Ci pensa alla maglia azzurra?
«Certo, è un obiettivo. Anche se il percorso di Ponferrada non è proprio su misura per me».
Nel 2015, se potesse scegliere, Giro o Tour?
«Il Giro per un italiano è la corsa simbolo, ti dà una grandissima visibilità. Però mi piacerebbe conoscere il Tour, ne chiedo spesso a Paolo (Tiralongo, ndr). Non so, c’è tempo per pensarci».
Chi sono i migliori nelle corse a tappe?
«Penso che ci siano 4-5 grandi specialisti sullo stesso livello. Non mi piace fare graduatorie perché sono tutti grandi campioni: Contador, Nibali, Froome, Rodriguez e Quintana sono il top, poi ci sono gli altri».
In inverno lei ha fatto anche molta palestra.
Sorride. «Sì, davvero tanta anche perché Valentina lavora lì. Così tutti i giorni facevo due ore. E sono uscito più forte».
Cosa le piace di più e cosa di meno del ciclismo?
«A me piace andare in bici, non è solo mestiere. Ovvio che magari non sempre ho voglia di fare cinque ore in sella. Però se c’è il “Tira”, non si sgarra neanche di un minuto. La cosa che meno mi piace... sono le rinunce a tavola. Ma so che sono indispensabili. Io mangio di tutto, e vivrei di pasta e di pizza. Però se voglio arrivare a certi risultati, so che non posso concedermi sgarri».
È vero che è Valentina a tenerla in riga a tavola?
Fabio sorride, mentre gli occhi azzurri della fidanzata lo guardano. «Sì, lei è inflessibile, più rigorosa di me». «Bresaola, pollo e gallette: più o meno i nostri pasti sono questi» precisa lei.
Vi siete conosciuti grazie al ciclismo?
«No, anche se a lei è sempre piaciuto molto. Ma io l’ho fatta appassionare ancora di più. Ogni tanto usciamo insieme in bici. Prima del Giro l’ho portata addirittura sul Moncenisio...».
Quintana ormai per tutti è il condor, lei che soprannome preferisce?
«Mio zio Giuseppe, per via della mia bravura in salita, un po’ di anni fa mi chiamò muflone. In Sardegna è un animale molto diffuso. E il mio fan club l’ha usato come simbolo. Non mi dispiace».
A proposito: tra Quintana e Uran, chi sceglie?
«Uran, abbiamo più cose da dirci».
Tra Milan e Inter?
«Milan. Sì, sono un tifoso rossonero».
Rossi o Alonso?
«Rossi. Per via delle ruote ci sono anche più affinità. E poi è italiano».
Bici da strada o mountain bike?
«Se devo uscire per una passeggiata con Valentina, preferisco la mountain bike».