Guia Soncini, Il Messaggero 04/06/2014, 4 giugno 2014
LA CROCIATA GRILLINA SUL GRANO SARACENO FA IMPAZZIRE IL WEB
Vengono da fuori a rubarci il lavoro. Spighe extracomunitarie che sottraggono l’impiego alle spighe italiane. Sì, va bene, magari saranno pure naturalizzate, magari sono nate qui, ma sono comunque spighe con nomi stranieri. È un complotto per confonderci. Un broglio onomastico. La proposta di legge è del luglio 2013, ma qualcuno ieri l’ha rilanciata in rete e nel giro di pochi minuti tutti si dilettavano di tutele agroalimentari.
Si sa come funziona, con la rete e la rapida circolazione delle informazioni: ce l’hanno insegnato i Cinque Stelle, no? Quelli che è tutto on line. Quelli che la trasparenza, la garanzia d’onestà, le buone intenzioni. La proposta di legge, effettivamente piena di buone intenzioni, riguarda modifiche «in materia di contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari». Trattasi del discorso sulla tutela dei prodotti italiani e la certificazione della provenienza che abbiamo sentito fare tante volte. In anni in cui il cibo sembra l’unica fonte di guadagno possibile, in cui i supermercati d’alto bordo hanno la rilevanza culturale che una volta avevano i cantautori o i registi, in cui non riconosceremmo la foto d’un romanziere che abbia vinto lo Strega ma riconosciamo senza esitazioni quella del proprietario di Eataly, il protezionismo agroalimentare è un tema caldo. Non è chiarissimo come i difensori del cibo italiano concilino il debole per il chilometro zero con l’urgenza, per il cittadino dell’Ohio, di mangiare veri prodotti italiani e non tristi riproduzioni locali: l’export è una bella cosa e se aumentano i guadagni nazionali siamo tutti contenti, ma dubito che una mozzarella di bufala arrivi al massimo della freschezza dalla stalla del casertano al carrello della spesa della consumatrice texana. Ma tutto questo dibattito è improvvisamente invecchiato ieri, quando abbiamo letto la proposta di legge e abbiamo scoperto le nuove geografie del chilometro zero. «Un esempio per tutti – ammonivano i quattordici deputati Cinque Stelle che l’hanno firmata – La pasta venduta in Italia è prodotta per un terzo con grano saraceno». Che, si sa, non è un tipo di cereale ma un’indicazione geografica. Vengono dalla Turchia a rubare il lavoro ai grani di casa nostra, maledette spighe straniere. I nuovi criteri per la definizione del territorio e il veto ai cibi forestieri hanno rivoluzionato ieri stesso i menu di ristoranti e trattorie. Nessuno si azzardava a ordinare cavolini di Bruxelles, e ancor meno zuppa inglese (almeno i belgi sono comunitari, ma quelli oltremanica no, loro non passeranno; e comunque anche i belgi non esagerino, mettiamo un tetto massimo all’invasore: o i cavolini, o l’indivia). Chi chiedeva una svizzera subito si correggeva: «No, volevo dire un hamburger». Insalate nizzarde venivano richieste sottovoce a camerieri corrotti, come certe bottiglie tascabili di whisky nell’America del proibizionismo. Commensali chiacchieravano nostalgici: «Ti ricordi di quand’era legale la crema catalana?». Finalmente saremo un paese serio, patriottico, che difende i propri valori e i propri prodotti. I fichi non saranno più d’India e l’insalata non sarà più russa. Sto dicendo a voi. A voi che ho finora sottovalutato: pensavo millantaste intolleranza al glutine per non dire che stavate a dieta, e invece la vostra era resistenza patriottica. Ma anche a voi delinquenti che, proprio mentre sto scrivendo, fate finta di niente e sciogliete il burro su una pannocchia di granturco, che quindi viene da Istanbul. Lo dice il ragionamento stesso, avrebbe detto il Ferrini di Quelli della notte. (Dopo mezza giornata di spernacchiamenti, è stata riportata la versione del primo firmatario della proposta di legge, Filippo Gallinella, che ha parlato di «refuso», un po’ come quelli la cui ortografia fa pensare non abbiano fatto le elementari e che danno abitualmente la colpa al correttore automatico del telefono. Pare che “saraceno”, presente oltre che nella proposta di legge anche nella relazione di una Commissione parlamentare, sia quello che i quattordici inconsci dei quattordici deputati Cinque Stelle fanno loro scrivere quando essi pensano “straniero”. Non intendevano dire che il grano è turco: era un discorso più generale, intendevano dire che è uno scandalo che Banderas venga dalla Spagna a rubare agli italiani il lavoro di testimonial del Mulino Bianco).
Ho scritto questo articolo seduta a un bancone di Eataly. Pensavo che il luogo mi avrebbe ispirato qualche spiritosaggine sulla gastrocrazia, la dittatura del chilometro zero e del biologico, il cibo come nuova religione, i prodotti locali che se sono locali non si capisce come mai costino più di quelli che hanno attraversato valli e oceani per arrivare nel mio frigo. Ma avevo sottovalutato il caso, sceneggiatore migliore di quanto possano mai esserlo le intenzioni.
A un certo punto ho alzato gli occhi e ho visto che sulle spine c’erano etichette di spiegazione delle varie birre. In corrispondenza di quella che stavo bevendo io c’era scritto, lo giuro, «birra egizia». Ho pensato a uno scherzo. A un refuso. A un barista a Cinque Stelle. Ho chiesto. Il ragazzo che me l’aveva spillata mi ha detto che la birra che stavo bevendo, di un rinomato birrificio artigianale delle Langhe, è «fatta con grano kamut, che è un cereale egizio». Ho pagato velocemente, e in contanti. Metti che un domani traccino i pagamenti con carte di credito e decidano di perseguire i traditori della patria. Quelli che hanno trafficato in cereali extracomunitari.