Ugo Bertone, Libero 04/06/2014, 4 giugno 2014
ZERO LAVORO IN ITALIA, RIPARTE LA SPAGNA
L’austerity fa sempre più male all’Italia: il tasso di disoccupazione nel primo trimestre del 2014 raggiunge il 13,6%, in crescita di 0,8 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Nuovo un massimo storico, ovvero Il valore più alto dall’inizio delle serie trimestrali, partite nel 1977. Grave anche il livello dei senza lavoro tra i giovani (15 e i 24 anni) che sale al 46,0%. Si tratta sottolinea l’Istat di un altro record. Uscendo dalle percentuali, il numero che fa impressione è: 3 milioni 487mila (in aumento di 212mila su base annua). Sono le persone disoccupate. Il picco è nel Mezzogiorno, dove il tasso dei senza lavoro vola al 21,7% nel primo trimestre del 2014 (quella dei giovani è addirittura del 60,9 per cento).
Nell’intera zona euro, ad aprile, il tasso di disoccupazione cala invece, seppur lievemente, all’11,7 dall’11,8% di marzo. Balza all’occhio però il dato della Spagna il buco nero dell’occupazione che scende, finalmente scende. La marea della disoccupazione si ritira, a poco a poco, dalle terre della Spagna che sta per cambiare re. Per carità. Per ora è solo una goccia nel mare: 111.916 nuovi posti di lavoro che escono dall’esercito dei senza lavoro, quasi 4,6 milioni di disoccupati dalle Asturie all’Andalusia, ovvero uno spagnolo su quattro (il 25,1%), più di un giovane su due (il 57,3%) che si ostina a restare in patria invece che cercar fortuna oltre frontiera. Ma il segnale di ieri lascia ben sperare perché non è isolato ma si accompagna ad un primo salto in avanti del pil (+0,4% nei primi tre mesi) e delle esportazioni. Anzi, ai cenni di ripresa dell’economia si accompagna la promozione del rating da parte di Standard & Poor’s, l’apprezzamento del Fondo Monetario («Madrid ha svoltato»), della finanza internazionale e degli operatori immobiliari che si disputano a quotazioni in salita o centri commerciali di Madrid o Barcellona parcheggiati nel Banco Malo (o Bad bank) che solo un anno fa nessuno voleva nemeno a prezzo stracciati. Ancor più importante, il governo Rajoy ha schiacciato il pedale dell’acceleratore sulla crescita, nella convinzione che è arrivato il momento di investire non solo sull’export ma anche sulla crescita interna e i consumi. E l’ha fatto senza troppo badare ai tabù dei vincoli Ue.
La strategia è più o meno opposta a quella che l’Italia ha voluto praticare in questi anni. Il tetto , per noi italiani invalicabile, del 3 per cento, Madrid si è impegnato a rispettarlo solo dal 2016, dopo aver toccato quest’anno un deficit del 5,6% che salità nel 2015 al 6,1%. Numeri che non hanno impedito a Mariano Rajoy di annunciare l’avvio di una riforma fiscale da presentare in consiglio dei ministri venerdì che prevede la riduzione delle imposte sulle società dal 30 al 25 per cento per le grandi imprese, primo tassello di rivoluzione che, promette Rajoy, «ha per obiettivo far pagare meno tasse alla gente». Certo, non sono mancate le opposizioni. Anzi, il Fondo Monetario ha appena mandato a dire a Madrid che la riforma fiscale (è previsto, tra l’altro, che sotto i 15 mila euro non si pagherà l’Irpef) potrà funzionare solo a parità di gettito. Perciò sarà necessario che ai tagli si abbini l’aumento dell’Iva. Forse si farà così oppure, come spera l’esecutivo, i minori costi del debito (lo spread di Madrid è costantemente più basso di quello chiesto ai Btp) e la maggior velocità di crescita dell’economia consentiranno di far quadrare i conti senza una nuova iniezione di austerità.
Il governo ci crede, come dimostra l’annuncio a sorpresa del premier a Sitges , a due passi da quela Barcellona che non è certo tenera con il governo centrale: un piano di stimoli per l’economia di 6,3 miliardi, di cui 3,6 in arrivo dalle casse pubbliche (ma sena aumentre il deficit, assicura il governo), il tresto dagli investitoro priva. Un pacchetto da destinare a sostegno a nuove industrie (750 milioni) a crediti per investimenti tecnologici e ad incentivi per l’auto, ormai un settore strategico per la Spagna che produce più di due milioni di vetture (contro le 400 mila italiane). Ma assieme ai soldi arriveranno nuove riforme sul mercato del lavoro, per favorire l’inserimento dei giovani. Inoltre, non ultimo, semplificazioni sul deposito di bilancio ed altre norme che tendono a favorire gli investimenti dall’estero.
Insomma, il cantiere di Madrid è in pieno fermento, senza troppo badare alle ultime direttive in arrivo da Ollie Rehn o dai falchi. Non è la prima volta, del resto, che Madrid, un po’ per scelta, molto per necessità, deve saltare con il cuore oltre l’ostacolo. E che Bruxelles accetta di stendere, seppur a malincuore, una rete. A differenza dell’Italia (rifiuto opposto da Mario Monti) Madrid ha accettato gli aiuti del fondo comunitario Efsf per risanare, sotto la supervisione degli ispettori Ue, il settore bancario, dissestato dalla bolla immobiliare (cui non sono certo estranee le responsabilità delle banche tedesche e francesi). Nel 2012, a fronte di un finanziamento di 37 miliardi di euro (ma, in caso di necessità, si poteva salire fino a 100 miliardi) le disastrate casse di risparmio iberiche furono obbligate a cedere una montagna di immobili, più o meno 200mila, ad una società creata, per l’occasione dal governo, la Sareb con l’obiettivo di vendere l’intero magazzino entro 15 anni. Di questo passo, però, la missione potrebbe finire ben prima. Nel 2013 Sareb ha venduto 10.500 immobili (con uno sconto medio del 40 per cento sui valori di carico), quest’anno le cose promettono di andare assai meglio (anche sul piano dei prezzi). Il Banco de Catalunya ha già ricevuto più offerte per il Progetto Hecules, un gigantesco portafoglio di immobili (per una buona metà pignorati) che vale più o meno 7 miliadi di euro.
Insomma la Spagna comincia a vedere la luce in fondo al
tunnel. Meglio e prima dell’Italia che pure vanta una struttura industriale ben più solida. Perchè? La prima spiegazione sta nei maggiori margini di manora di Madrid. Oggi, dopo aver sopportato i colpi della crisi, il debito pubblico spagnolo è pari al 94 del Pil contro il 70 per cento del 2007. Assai meno del fardello che limita le mosse del governo italiano che paga i frutti guasti di una politica basata solo sul contenimento dei conti. Il governo di Mario Monti prevedeva che, dopo la terapia sui conti pubblici, il debito italiano sarebbe sceso nel 2014 al 118% del Pil, invece sta continuando a salire oltre il 135%. E la primavera scorsa il governo di Enrico Letta pensava che quest’anno il debito sarebbe sceso al 129%, invece è di 90 miliardi più alto.
Per carità, guai a pensare che la Spagna non abbia sopportato la sua dose di austerità. Anzi, come ha sottolineato l’agenzia Fitch «è starordinario che il governo abbia ancora la mggioranza relativa dopo le dure riforme di questi anni». Ma si è trattato di riforme vere, senza compromessi. Fatte più che promesse. A partire dalla decisione della primavera del 2012, quando con due soli decreti legge il governo si impegnò, primo in Europa, a pagare gli arretrati alle imprese, uno sforzo da 40 miliardi che è servito a ridar ossigeno (e fiducia nella Pubblica Amministrazione) alle piccole e medie imprese. Ancor più importante, anzi decisiva, è stata la riforma del mercato del lavoro, annunciata a febbraio del 2012, legge dello Stato cinque mesi dopo. Grazie al nuovo regime, i contratti aziendali pesano di più, anzi sostituiscono quelli di settore o nazionali. Le imprese possono rinunciare al contratto collettivo e adottare misure che rendano più flessibile l’occupazione; possono introdurre unilateralmente modifiche alle condizioni di lavoro (inclusi i salari, il numero di ore lavorate e l’organizzazione del lavoro) ogni volta che ragioni economiche tecniche o organizzative lo richiedano. Tra le altre condizioni la nuova legge introduce la possibilità di licenziamento qualora l’impresa fronteggi tre trimestri consecutivi di calo nei ricavi o nel reddito ordinario. L’impresa in questione non deve neanche dimostrare che il licenziamento sia essenziale per la futura profittabilità. I risultati? L’occupazione, in tempi di crisi, non cresce per decreto legge. Ma la ricetta Rajoy ha fatto della Spagna, assieme al Regno Unito, il vero polo d’attrazione degli investimenti nell’auto e ha dimostrato al mondo che Madrid e Barcellona, con tutti i problemi sociali e politici del caso, sono posti affidabili per investire. E questo agli occhi dei mercati vale assai di più del Fiscal Compact.