Nicola Imberti, Il Tempo 4/6/2014, 4 giugno 2014
ORDINI SEGRETI, SCARICABARILE E BARATTI: IL RUOLO DI PASSERA NELL’INTRIGO INDIANO
«Abbiamo obbedito a degli ordini e oggi siamo ancora qui». Il grido del fuciliere Salvatore Girone risuona e continuerà a risuonare nelle orecchie degli italiani che, increduli, assistono da due anni allo scaricabarile che coinvolge tutti gli attori di questa vicenda. Perché se in molti continuano a chiedersi chi sono i responsabili dell’ingiusta detenzione in India dei nostri due marò, è bene dire che i responsabili ci sono. Pur nascosti tra le pieghe di dichiarazioni ufficiali, verbali di sedute parlamentari, riunioni governative.
Cominciamo dall’inizio. Da quelle 24 ore a cavallo tra il 15 e il 16 febbraio 2012 quando le autorità indiane chiesero al comandante della nave Enrica Lexie di invertire la rotta. Chi autorizzò quella manovra? Una versione ufficiosa dice che quella notte l’allora Capo di Stato maggiore della Marina (attuale Capo di Stato maggiore della Difesa), ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, fu esautorato dal comando e la decisione fu esclusivamente «politica».
Non corrisponde, però, a quella fornita dall’allora ministro della Difesa, ammiraglio Giampaolo Di Paola, che nell’ottobre 2012, rispondendo ad un’interrogazione dei senatori Idv Luigi Li Gotti, Felice Belisario, Fabio Giambrone, Giuseppe Caforio e Stefano Pedica, spiegava: «L’autorizzazione a procedere verso le acque territoriali indiane è stata data dalla compagnia armatrice, una volta contattata dal comandante della nave. Ciò, tuttavia, per la presenza del NMP (Nuclei Militari di Protezione) a bordo, è avvenuto a seguito di preventiva informazione della catena di comando militare nazionale che, peraltro, sulla base del quadro di situazione a quel momento noto, non aveva ravvisato elementi che potessero indurre a negare una doverosa attività di collaborazione con uno Stato sovrano».
Insomma la «catena di comando militare nazionale» sapeva. E non fece nulla per evitare quello che poi si dimostrò un errore fatale. È questo l’ordine cui fa riferimento Girone? O Di Paola ha solo voluto scaricare su altri le responsabilità «politiche» del governo? Quella dell’ottobre 2012 è l’unica volta che l’ex ministro fornisce questa versione dei fatti. A marzo 2013, chiamato a intervenire nell’aula della Camera dopo le dimissioni in diretta di Giulio Maria Terzi, si limiterà a sottoscrivere quanto detto dal collega. Un racconto che, letto oggi, serve per affrontare l’altro punto oscuro della vicenda marò.
La data è quella del 22 marzo 2013, quando Girone e Massimiliano Latorre, in Italia con un permesso per poter votare, vengono rispediti in India. Il 26 marzo Terzi spiega di essersi opposto a quella decisione. Di Paola, con linguaggio militare, di aver fatto prevalere il «dovere» e il «senso di responsabilità» rispetto alla «dolorosa sofferenza e partecipazione». Tradotto: ubbidì ad una decisione «collegiale».
Ma se i titolari di Esteri e Difesa non vedevano di buon occhio quella scelta, chi fece pressione in senso opposto? Terzi, intervistato da Il Tempo poco tempo fa, ha fatto nomi e cognomi: Mario Monti e Corrado Passera. Già allora aveva spiegato che «il governo ha tenuto nella massima priorità la tutela dei nostri concittadini in India e delle imprese operanti in quel Paese, nonché dei loro lavoratori».
Monti, però, aveva corretto il tiro: «Le valutazioni su possibili interessi economici non hanno condizionato l’obiettivo prioritario di tutela dei nostri connazionali». Anche se subito dopo aveva aggiunto: «Abbiamo disinnescato stampa e opinione pubblica indiana a tutela dei nostri connazionali e delle nostre 483 imprese in India».
L’aspetto economico, quindi, fu tutt’altro che irrilevante. Non a caso la decisione di rispedire i marò, fu presa in due riunioni del Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica che è composto dal premier e dai ministri di Difesa, Esteri, Interno, Giustizia, Economia e Sviluppo Economico.
Sviluppo Economico, quindi, Corrado Passera. Che in questa vicenda è coinvolto anche per un altro motivo. A gennaio 2013 il governo aveva nominato ambasciatore italiano in India Daniele Mancini, ex consigliere diplomatico del ministro. A marzo il governo di New Delhi gli aveva negato l’immunità diplomatica. Quando Monti ricostruisce la vicenda elenca, tra le rassicurazioni ricevute che avevano convinto l’esecutivo a rimandare i marò, anche «il ripristino dell’immunità per il nostro ambasciatore». Che, è presumibile pensare, avrà sicuramente chiesto una mano al ministro con cui, fino a due mesi prima, aveva collaborato a Roma.