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 2014  giugno 02 Lunedì calendario

LA BATTUTA LOGORA CHI NON CE L’HA


Il linguaggio della politica è diventato veloce, sintetico, quasi spietato. “Li rottamiamo”, “Vaffanculo”, “Vinciamo noi”, no, “vinciamo poi”. Le frasi celebri degli ultimi anni sono tutte tarate sui social network, sulla rete, ancora più veloci del messaggio televisivo che ha dominato gli anni 90 e 2000. L’accelerazione è stata però figlia legittima del berlusconismo e, prima ancora, del craxismo con metafore e allusioni più incisive dei fatti concreti.
All’inizio della Repubblica, invece, con uomini come Alcide De Gasperi, brillava il linguaggio colto e austero di inizio secolo. Come quello usato a Parigi, alla Conferenza di Pace nel ‘46. Ai vincitori del conflitto, pronti a punire l’Italia, l’allora presidente del Consiglio si rivolgeva con ironia mista a malinconia: “Sento che tutto, tranne la vostra cortesia, è contro di me”. Diplomazia asburgica confrontabile solo con le espressioni retoriche del comunismo: “Veniamo da lontano e andiamo molto lontano” ripeteva a quel tempo Palmiro Togliatti. Il che non impediva a De Gasperi di cucinarlo a fuoco lento accusandolo, alle elezioni del ‘48, di avere “il piede fesso” mentre Togliatti rispondeva che con quel piede avrebbe “calzato uno stivale chiodato per piantare un calcione” in una parte del corpo non precisata del leader democristiano. Eppure, come notò più tardi uno dei suoi successori, Amintore Fanfani, De Gasperi “fu uno dei pochissimi uomini da cui non udii mai un giudizio irrispettoso verso chicchessia”.
Fanfani, da parte sua, era uno dei “due cavalli di razza” a disposizione della Dc, come lo definì Carlo Donat Cattin. L’altro era Aldo Moro, indelebile figura di statista anche se fu Fanfani a sdoganare il primo centrosinistra. Il leader aretino si fece poi seppellire politicamente dalla sconfitta sul divorzio, quando andava per comizi a terrorizzare i contadini: “Se resterà il divorzio diventeremo tutti degli scimuniti”. Di lui resterà l’immagine del “Fanfascista” coniata dal manifesto mentre, ad esempio, Marco Pannella, più svelto con il corpo che con la parola, gli sopravviverà all’infinito.
IL PATÈ DEI POLITICI
Il peggio deve, dunque, venire. Come ricorda Guido Quaranta, capostipite della moderna cronaca politica, nel suo Scusatemi ho il paté d’animo (il fior fiore delle imbecillità dei politici), “la comparsa del politichese risale press’a poco alla metà degli anni Cinquanta”. Nell’Italia che progrediva economicamente la politica iniziava a farsi affare, organizzandosi in correnti e sottocorrenti democristiane dal linguaggio oscuro. Lo stile sobrio e sabaudo di Togliatti, che conia “la svolta di Salerno” e invita i compagni a “stare calmi” dopo l’attentato del ‘48 o l’aplomb del liberale Giovanni Malagodi che definiva l’estenuante relazione del governo Moro alle Camere, “brevi cenni sull’universo”, lasciavano spazio ai bizantinismi del leader Dc che coniava le “convergenze parallele” o agli alambicchi del socialista Francesco De Martino che auspicava “nuovi e più avanzati equilibri”. In questi sofismi iniziano a farsi spazio battute destinate a restare nel tempo. Il più abile nella specialità è certamente il socialista Pietro Nenni, più ruspante di Togliatti e De Gasperi, che nel ‘62 riassume la nascita del primo centrosinistra con il problema di “chi sarà nella stanza dei bottoni”. All’intellettualismo del suo Psi che si dibatte tra “riforme correttive” e “riforme strutturali”, Nenni spiega paziente che “col tirare troppo, la corda può spezzarsi”. Di fronte alle ipotesi golpiste del generale De Lorenzo, spalleggiato dal presidente Antonio Segni, dirà di sentire un “tintinnar di sciabole” . Ed è sempre lui a inventare, con duraturo senso della sintesi, l’immagine delle “piazze piene, urne vuote”.
Dalla stagnazione politica dei secondi anni 60 emergeranno figure sbiadite che poco diranno alla politica. Come il presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat che giustificava le sconfitte elettorali del suo Psdi con “il destino cinico e baro” oppure il presidente Giovanni Leone, eletto nel ‘71 al 23° scrutinio, con i voti del Msi. Di lui resta il ricordo di uno scandalo tangenti che lo costrinse alle dimissioni anticipate ma soprattutto quella goffa esibizione della mano a forma di corna contro gli studenti di Pisa: “Mi gridarono ‘fetente’ e io gli ho risposto: ‘fetenti ‘a mmuorte vostra”. Scene desolanti di una politica travolta dagli scandali e dalla contestazione e che si appresta ad affrontare, supina, il grande lavacro del ‘78, con la morte di Moro per mano delle Br. Da cui non uscirà un Paese rinnovato ma l’abisso degli anni 80.
Ci aveva provato Enrico Berlinguer a dare una prospettiva alla crisi italiana coniando la seconda ipotesi strategica del Pci dopo la “svolta” togliattiana: “È sempre più urgente che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande “compromesso storico” scrive nel 1973 sul settimanale del partito, Rinascita. Quelle due parole diventano il simbolo di una stagione così come il manifesto della campagna elettorale del 1975, la prima del grande balzo comunista: “Siamo il partito delle mani pulite”. Tutto questo non salverà il Pci dall’abbraccio mortale con una Dc in cui Giulio Andreotti teorizza che “il potere logora chi non ce l’ha”. Infatti logorerà i comunisti mentre Moro, “il tessitore” è lo stesso che in Parlamento, di fronte allo scandalo Lockeed , grida: “Non ci processerete nelle piazze”.
L’unico rinnovamento verrà dal nuovo presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Il capo dello Stato più amato è quello che chiede di “svuotare gli arsenali e riempire i granai” o che, di fronte ai ritardi e alle speculazioni sul terremoto dell’Irpinia intima: “Se vi è qualcuno che ha speculato, io chiedo: costui è in carcere, come dovrebbe essere in carcere?”.
Ma Pertini è solo un’eccezione, gli anni 80 che si stanno per aprire saranno quelli della modernità che sconfina nella rozzezza e anche il politichese un po’ alla volta viene mutato in un linguaggio più aggressivo e, allo stesso tempo, più mediatico. La decenza è salva solo per la verità intrinseca di affermazioni come quella del socialista Rino Formica, mente fina del craxismo, che nel vivo dei rinnovati scontri tra Dc e Psi proclama al mondo intero che la “politica è sangue e merda”. È ancora Formica a presagire la Tangentopoli futura quando ricorda a un partito di arricchiti che “il convento è povero ma i frati sono ricchi”. Quel partito si trasformerà a poco a poco in un consesso di “nani e ballerine” con poco rispetto per quest’ultimi ma molta consapevolezza del tempo presente. Craxi e Andreotti, intanto, cercheranno di “tirare a campare” per non “tirare le cuoia” e il dirigente democristiano non andrà al funerale del generale Dalla Chiesa perché “preferisco i battesimi”. Bettino Craxi provoca le crisi durante i congressi del Psi, inviando il delfino a proclamare che il governo “è al capolinea” e, quasi come un profetico Schettino, traccia una diagnosi marinara del Paese: “La nave va”.
Nel 1992 Mani pulite ricorda a tutti che il potere può logorare anche chi ce l’ha e la Repubblica viene messa sottosopra. Anche nel linguaggio. I “raggionamendi” dell’“intellettuale della Magna Grecia”, come Gianni Agnelli definì il segretario dc, Ciriaco De Mita, lasciano il campo a slogan veloci, pensati per la tv e destinati a essere digeriti in pochi secondi. O a battute fulminanti - “Che c’azzecca?” - all’Antonio Di Pietro.
IL PAESE CHE AMAVO
Il più fortunato, però, resta il più bugiardo: “L’Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un Paese illiberale”. Mentre Silvio Berlusconi, con l’occhio ai bilanci delle proprie aziende e alle inchieste incombenti, motiva la propria “discesa” in politica, Achille Occhetto, ignaro della disfatta, annuncia felice nel 1994: “Abbiamo messo a punto una gioiosa macchina da guerra”. Berlusconi lascerà sul campo le macerie del “bunga bunga” e delle “minorenni offerte al drago” ma sarà riuscito a piantare nella testa della gente bandiere come “meno tasse per tutti”. Il centrosinistra, al contrario, annaspa. Si infila in improbabili bicamerali e riveste la propria impotenza con querce e margherite improvvisate. Dopo Occhetto, ci prova Romano Prodi a inventarsi un’alternativa al berlusconismo con “l’Ulivo”. Verrà sotterrato dall’idea cossighian-dalemiana (tendenza Mastella) secondo la quale il “centro-sinistra è solo quello con il trattino”. Francesco Cossiga, traccia così il solco della sua terza stagione politica dopo gli anni 70, quando il suo nome veniva disegnato con la “K” e l’inizio degli anni 90 quando, da Presidente della Repubblica, rinverdì l’immagine del piccone in politica.
All’opposto, Prodi viene chiamato da Fausto Bertinotti a scegliere tra “svolta o rottura” mentre dopo dieci anni sarà accusato dal leader comunista di essere “il più grande poeta morente”. Gli altri, come Massimo D’Alema, inaugurano una nuova sinistra che non si ispira solo alla “terza via” di Bill Clinton e Tony Blair ma che, per la prima volta, se la prende con i giornalisti , “jene dattilografe”. A consacrare il “lider maximo” però, per contrappasso, sarà lo sberleffo di Nanni Moretti con la richiesta disperata a “dire qualcosa di sinistra”. Più proasaicamente Francesco Rutelli, candidato premier nel 2001, dopo essere stato sindaco della rinascita romana, urla ai convegni del proprio partito di aver “mangiato solo pane e cicoria”, dimentico che quel partito, la Margherita, è la stessa che foraggiava le ville e le aragoste di Luigi Lusi che la cicoria non sapeva nemmeno cos’era. Per sottrarsi alla difficile ricerca di idee fresche da sottoporre agli elettori, il primo segretario del Pd, Walter Veltroni si rifugia nella retorica anglofona: prima con un caritatevole I Care e poi con un obamiano Yes I Can italianizzato in un pallido “Si può fare” nella campagna elettorale in cui "il principale esponente dello schieramento a noi avverso" non sarà mai chiamato per nome. Negli stessi giorni, siamo nel 2008, la destra di Gianfranco Fini pensa di sfuggire all’abbraccio berlusconiano con il nascente Pdl ironizzando sulle “comiche finali”. A far ridere, o piangere, alla fine sarà la “casa di Montecarlo” e l’ex leader della destra verrà ricordato con il dito alzato e la faccia tesa, urlante: “Che fai, mi cacci?”.
La politica, ormai, è schiacciata sul titolo di un Tg, ridotta a una frase da sberleffo. Si divincola tra un affare “a mia insaputa” e un “ribaltone” alla Scilipoti. Qui e là trova spazio “la narrazione” di Nichi Vendola ma, fuori dal Palazzo, inizia ad avanzare una strana creatura che grida “Vaffanculo” e ha il volto di un comico molto popolare. Nessuno fa mostra di capire il fenomeno Beppe Grillo. Meglio il salto della quaglia da un partito all’altro o pensare che l’Italia si possa salvare parlando di “tacchini sul tetto” e di “giaguari da smacchiare”, come fa Pierluigi Bersani. Verrà travolto anche per questo mentre si salverà, per ora, chi si è messo in tempo in sintonia con i pensieri veloci di un’Italia stanca, affannata oppure china sui propri smartphone e Ipad . A questa Italia Matteo Renzi si presenta con una frase ripetuta fino alla noia: “Stiamo rottamando quei politici che da vent’anni sono aggrappati alla poltrona”. Spera così di non essere l’ultimo protagonista del “teatrino della politica” ma il capostipite di una fase nuova. Su tutti, anche su di lui, aleggia però la frase del primo presidente della Repubblica eletto a norma di Costituzione, Luigi Einaudi: “La maggior parte delle parole comunemente adoperate (dagli uomini politici) sono sovratutto notabili per la mancanza di contenuto. Che è propriamente la ragione del loro successo”.

Salvatore Cannavò, Il Fatto Quotidiano 2/6/2014