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 2014  giugno 02 Lunedì calendario

UBER, UNA “APP” CHE VALE COME LA FIAT


New York
Quando tra non molto salirete sulla prima automobile che si guida da sola, e che non ha né volante, né acceleratore, né pedale del freno, ma solo sensori e collegamenti satellitari, è probabile che vedrete da qualche parte il logo Uber. «Sarà un nostro partner», ha confermato la settimana scorsa Sergej Brin, il ricchissimo e geniale co-fondatore di Google (a soli 40 anni ha un patrimonio di 21 miliardi), presentando i prototipi della “self-car”, il nuovo coniglio che uscirà dal cappello di Mountain View. Per il lancio della macchina che si guida da sola, Google farà affidamento, seguendo il modello sperimentato con successo per Android e Nexus, su una serie di partner esterni: tra questi, Uber, in cui Google Ventures ha già investito l’anno scorso 250 milioni di dollari. Sarà un nuovo traguardo per Travis Kalanick, il trentasettenne che nel 2009, assieme a Garrett Camp, ha lanciato il primo servizio di trasporto urbano basato sugli smartphone. Sempre la settimana scorsa Kalanick ha concluso un accordo con il gigante della telefonia At&t per la pre-installazione su tutti gli apparecchi Android forniti con l’abbonamento al colosso delle tlc, della app di Uber che consente di cercare e prenotare un’auto. Sono giornate intense per il nemico numero uno dei tassisti di tutto il mondo. Da un lato si moltiplicano le proteste delle varie corporazioni: l’ultima in ordine di tempo è stata quella di Milano. Dall’altro Uber appare sempre più un “game-changer”, un fattore di cambiamento strutturale e modernizzazione del trasporto urbano. Del resto, proprio alla vigilia dell’annuncio di Brin sulla “self-car” e della At&t sulla App, Uber era già finita sulla prima pagine del Wall street journal per una notizia che ha stupito persino l’alta finanza. Si è scoperto che la società californiana è in trattative con un gruppo di investitori, tra cui General Atlantic, Technology Crossover Ventures e l’onnipresente Black-Rock, per raccogliere 500 milioni di dollari. E la base di partenza dei negoziati è una valutazione di Uber non più di 3,5 miliardi, come si diceva fino a pochi mesi fa, ma di 12 miliardi di dollari: una cifra immensa per una giovane start-up e paragonabile al valore di antiche e consolidate società che a vario titolo si occupano di auto. Ad esempio, il colosso dell’autonoleggio Hertz global holdings ha una capitalizzazione di Borsa di 13,1 miliardi di dollari e la Fiat-Chrysler di 12,7. Uber come la Fiat? Anche di più se si considera che dopo l’articolo del Wsj sono uscite altre valutazioni, sui 17 miliardi di dollari. Ai tassisti milanesi, che hanno vinto il primo round della lotta contro la concorrenza di Uber, tutto questo potrà sembrare surreale. Eppure la sensazione degli analisti è che dietro l’entusiasmo di Wall Street si nasconda una trasformazione profonda del modo in cui opera il trasporto pubblico, grazie alle nuove tecnologie e alla “sharing economy”, la nuova area economica in cui alcune persone vendono ad altri il loro tempo o alcune risorse in eccesso. Con Uber tutto avviene velocemente via Internet: basta che qualcuno alla ricerca di un taxi spinga l’icona della app sull’iPhone, sul Galaxy o su qualsiasi altro smartphone, perché la richiesta del servizio sia trasmessa in tempo reale all’autista del network Uber che si trova più vicino. Grazie al Gps l’utente può seguire l’avvicinarsi del mezzo sullo schermo del telefonino. Alla fine della corsa, l’importo è addebitato direttamente sulla carta di credito che il cliente ha preregistrato, senza il passaggio di contanti, a meno che non si voglia dare una mancia, peraltro non richiesta. E le tariffe sono prefissate: un tanto a minuto, se la velocità media non supera una certa soglia, altrimenti un tot a chilometro. Attratti dalla comodità e facilitati dalla dimestichezza con le nuove tecnologie, i giovani “professional” sono i più assidui utilizzatori del servizio. Ma il suo appeal si sta diffondendo in altre fasce anagrafiche, rispecchiando un trend generale che vede anche i progressi di OpenTable per le prenotazioni ai ristoranti, la rapida diffusione di Airbnb per gli affitti di casa e il predominio indiscusso negli acquisti online della Amazon di Jeff Bezos, che peraltro ha anch’essa una partecipazione in Uber. A opporsi al nuovo servizio sono i tassisti vecchio stile, che già subiscono gli effetti della crisi economica, specie in alcuni Paesi come l’Italia dove gli appositi parcheggi sono stracolmi di auto in attesa, e che temono un ulteriore flessione della domanda a vantaggio dei concorrenti di Uber. Ma quasi in ogni città del mondo i tassisti sono in rivolta, e hanno chiesto alle autorità che regolano le attività di autonoleggio di bloccare l’invasione del servizio via web perché sarebbe contrario ai regolamenti comunali. In alcuni casi ci sono riusciti, come a Milano o ad Austin, in Texas; in tanti altri no. Dicono i tassisti: dobbiamo proteggere i consumatori dai rischi di trasporti insicuri e senza controlli ufficiali. Replica Uber: l’opposizione dei tassisti serve solo a proteggere i loro interessi corporativi. «Ormai da decenni il business dei taxi era pronto a un cambiamento radicale, ma solo le nuove tecnologie lo hanno permesso», spiega Kalanick, che per via del ciuffo ribelle assomiglia più a Clint Eastwood prima maniera che al tipico chief executive. Il sistema tradizionale dei taxi è del resto rigido perché si basa su un numero prefissato di mezzi a disposizione e su tariffe per lo più scollegate dai meccanismi della domanda e dell’offerta. Le autorità comunali concedono nuove licenze con il contagocce e queste raggiungono spesso quotazioni da capogiro. Il medallion per i taxi gialli di New York ha superato il milione di dollari, ripercuotendosi sugli affitti giornalieri che gli autisti autonomi pagano alle società che possiedono i mezzi. E a fare le spese di tutto ciò, sempre secondo Kalanick, sono sia gli utenti che i tassisti “ufficiali”. Uber si basa su modelli più elastici, anche sotto il profilo tariffario, capaci di «liberare - dice sempre Kalanick - i viaggiatori e gli autisti dalle gabbie protezionistiche ». Per entrare nel network basta possedere un’auto adeguata (all’inizio si trattava soprattutto di vetture di lusso), sottoporsi ad alcuni controlli e seguire un corso d’addestramento. Firmando il contratto, si ottiene l’apparecchiatura che trasmette il posizionamento dell’automobile e si concorda la quota di ogni corsa che verrà versata dalla società al conducente: di solito è sul 20%. I profitti sono assicurati: secondo i dati pubblicati dal Washington Post, mentre un tassista americano guadagna in media sui 30mila dollari l’anno, gli autisti newyorkesi di Uber hanno incassato mediamente 90mila dollari e quelli di San Francisco 74mila. La rabbiosa contestazione dei tassisti di Milano contro Uber: è intervenuto lo stesso premier Renzi per assicurare che del caso si occuperà il governo Il fondatore e attuale Ceo di Uber, Travis Kalanick, mentre scende da una delle “sue” auto.

Arturo Zampaglione, Affari&Finanza – la Repubblica 2/6/2014