Federico Fubini, Affari&Finanza – la Repubblica 2/6/2014, 2 giugno 2014
MAUGERI, L’OIL-MAN “PER L’EUROPA NON C’È ALTERNATIVA AL GAS DELLA RUSSIA”
Alla soglia dei cinquanta, Leonardo Maugeri probabilmente trova sia tardi, oppure troppo presto, per modificare una caratteristica che lo ha accompagnato in 25 anni nel mondo del petrolio e del gas: la concretezza. Lui è un personaggio singolare nel dibattito europeo e in Italia sulle fonti energetiche, che vive una strana dicotomia. Questa è una delle materie delle quali un gran numero di persone tende a discutere molto, con le opinioni più radicate, e con la consapevolezza minore della posta in gioco. Maugeri siede sulla sponda opposta di questa linea di faglia: dopo una carriera ai vertici dell’Eni durata due decenni e gli ultimi due anni di insegnamento, ricerca e seminari al Harvard, tende a sottoporre alla prova dei fatti e mettere in dubbio molte conclusioni generalmente accettate in Italia e in Europa come ovvie. Poco importa che siano posizioni che favoriscono o danneggiano l’industria tradizionale del petrolio, quella delle rinnovabili o l’ascesa del settore del gas e greggio di scisto, lo shale gas o il tight oil estratto dalla roccia, che per gli Stati Uniti sta diventando sempre più importante. Una delle presunte verità alle quali Maugeri non crede è che davvero gli Stati Uniti possano soppiantare le forniture di gas russo in Europa esportando il loro di shale gas. L’America non è un’alternativa, se la parte occidentale del vecchio continente davvero vuole emanciparsi dalla dipendenza da Mosca per affrontare i suoi inverni. A parere di Maugeri, oggi presidente del fondo d’investimento americano Ironbark e senior associate della Kennedy School of Government, non è molto praticabile l’idea che gli americani esportino in Europa il loro surplus di idrocarburi sotto forma di gas liquefatto. «Lo faranno con il contagocce perché l’amministrazione lo permetterà solo in quantitativi limitati - avverte Maugeri -. Ci sono forti lobby che resistono a quest’idea, perché più il gas americano viene esportato, più il suo prezzo per l’industria domestica è destinato a salire». Si può essere perdonati se si sospetta che l’amministrazione di Washington pratica esattamente ciò che chiede agli altri di non fare. Quando l’Argentina di Cristina Fernandez Kirchner pose limiti all’export delle sue derrate alimentari, per calmierare i prezzi all’interno, venne trattata come uno Stato pariahdel sistema economico internazionale. Oggi invece sull’energia l’America, nota l’esperto italiano, «mostra il paradosso del libero mercato». Poco importa dunque che l’Estonia e la Finlandia intendano costruire un rigassificatore congiunto, anche con l’uso dei fondi europei. O che le centrali di rigassificazione in Spagna stiano viaggiando al 30 per cento della capacità, dunque potrebbero aumentare di molto e fornire gas al resto del continente (se solo esistessero le infrastrutture di trasporto). Con concretezza, Maugeri riassume: l’Europa, minacciata dal blocco delle forniture russe in caso di nuove tensioni con l’Ucraina, non è in grado di diversificare rapidamente le sue fonti energetiche. La produzione di metano della Nigeria è insufficiente e lo stesso Qatar ha più interesse a vendere il suo gas liquefatto in Asia, dove riesce a spuntare un prezzo più alto. Si può dunque criticare la sindrome Nimby, il not in my backyard («non nel mio cortile»), delle città italiane che negli ultimi 15 anni non hanno voluto i rigassificatori. Ma paradossalmente è stata una fortuna, dice Maugeri: «Adesso rischierebbero di lavorare al 10 per cento della loro capacità». L’ex manager di Eni definisce la politica europea dell’energia «insensata». Non risparmia nessuno, nemmeno la Germania: «Lì il 48 per cento dell’elettricità è prodotto da carbone e il 24 per cento da fonti rinnovabili», osserva, «ma di queste ultime il grosso viene dall’idroelettrico». La politica dei grandi sussidi pubblici all’assemblaggio e all’installazione di pannelli solari e pale eoliche, spesso made in China, a suo parere non ha funzionato. Ma soprattutto, non ha avuto successo la politica di liberalizzazioni nel settore dell’energia perseguita da più di dieci anni a Bruxelles, perché era fatalmente asimmetrica. «L’apertura del mercato veniva imposta solo a valle nella distribuzione - osserva Maugeri - ma non a monte dove l’Unione europea è sempre stata costretta a fare i conti con un oligopolio di fornitori». I nomi li conoscono tutti: Libia, Algeria, ma soprattutto la Russia. Resta dunque la domanda fondamentale: come mettere al riparo gli inverni europei dal ricatto di Vladimir Putin? Maugeri una sua proposta ce l’ha e affonda le radici nella storia delle crisi energetiche del secolo scorso. Agli choc petroliferi degli anni ’70, le democrazie avanzate dell’Ocse risposero creando riserve strategiche nazionali di greggio. Ora lui propone qualcosa di simile per il gas naturale, ma da fare in Europa su scala molto più vasta di come può fare ogni singolo Paese. L’italiano di Harvard pensa a una riserva strategica dei 28 Paesi, finanziata e gestita da Bruxelles, il cui stoccaggio potrebbe essere assicurato nei giacimenti esauriti del Mare del Nord. Se il governo di Matteo Renzi lavorasse a fondo ai dettagli di una proposta del genere, aggiunge Maugeri, sarebbe in grado di farne uno dei cavalli di battaglia della presidenza italiana dell’Unione europea. Molto più difficile, praticamente impossibile, è invece puntare sullo shale gas e il tight oil nel vecchio continente. Qualche Paese, soprattutto la Polonia, accarezza progetti del genere. E Maugeri su questo settore emergente non ha una contrarietà di tipo ideologico: è stato il primo al mondo a fare uno studio approfondito, pozzo per pozzo, dei nuovi sfruttamenti americani in Texas e in Nord Dakota. Per primo ha previsto, già da anni, nello scetticismo, che avrebbero fatto degli Stati Uniti un serio sfidante dell’Arabia Saudita per il ruolo di maggiore grande produttore di petrolio al mondo. Ma proprio perché conosce benissimo l’industria del gas e del greggio di scisto (il cosiddetto shale), Maugeri sa anche che non è esportabile in Europa e ancor meno in Italia. Le perforazioni in questo settore sono infatti infinitamente più intense e invasive di quelle tradizionali. Un confronto dà la misura della differenza: in tutto il mondo fino ad oggi sono stati perforati circa 3.900 pozzi di gas e di petrolio, mentre solo negli ultimi anni ne sono stati aperti oltre 7.000 solo nello shale gas e nel tight oil. «L’impatto ambientale è troppo alto, si tratta di una tecnica di estrazione praticabile solo in aree completamente spopolate e prive di rischio sismico», avverte Maugeri. Persino lo Stato di New York ha proibito lo sfruttamento di Marcellus, un enorme giacimento nella roccia che corre fino al Canada. Dunque le opzioni dell’Europa e dell’Italia sono limitate, sia per trovare nuove fonti di approvvigionamento che per contenere i prezzi. Maugeri invita al realismo e ad agire di conseguenza. Ma ricorda anche che non abbiamo bisogno di costruire nella nostra mente minacce che in realtà non esistono: per esempio non lo è il recente accordo sulle forniture di metano annunciato fra i presidenti di Russia e Cina, Putin e Xi Jinping. Non sottrarrà energia all’Europa. Si tratta di gas della Siberia orientale che comunque non potrebbe arrivare in Occidente a costi sostenibili, e comunque per adesso Mosca e Pechino stanno ancora lentamente negoziando sul prezzo di quantitativi limitati. Questa, almeno, non è una minaccia. Concretezza, sembra intendere Maugeri, significa prepararsi ai problemi che realmente esistono davanti: non rimuoverli inventandosene altri. Leonardo Maugeri, presidente del fondo d’investimento americano Ironbark, visto da Dariush Radpour.
Federico Fubini, Affari&Finanza – la Repubblica 2/6/2014