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 2014  giugno 02 Lunedì calendario

PER L’OPERAZIONE UNIPOL


G li avvisi di garanzia sul salvataggio di Fonsai a opera di Unipol potrebbero riaprire il grande caso che nel 2012 divise la finanza italiana tra i sostenitori dell’operazione, Mediobanca, Unicredit e le altre banche creditrici del gruppo ligrestiano sull’orlo del fallimento, e i critici variamente interessati alla sorte del concorrente, Intesa Sanpaolo (che ha ingenti attività assicurative) e Generali. Uso il condizionale perché le inchieste non si sono ancora concluse con processi e condanne. Se questo accadrà, si aprirebbero anche un caso Consob e un caso Isvap, il primo a forte impatto di attualità, l’altro più di carattere storico, essendo la vigilanza sulle assicurazioni poi passata all’Ivass, sotto l’egida della Banca d’Italia, per avere queste istituzioni validato il salvataggio. Al momento, siamo soltanto alle interpretazioni. a prima interpretazione l’ha data il mercato, ed è positiva. Nel 2012 i critici erano scettici sulla qualità del gruppo dirigente di Unipol, guidato da Carlo Cimbri, e sull’esito industriale dell’operazione. Le prime cifre depotenziano quelle riserve. A fine 2011, quando viene contattata da Mediobanca, alla quale i Ligresti si erano affidati, l’Unipol valeva in Borsa 780 milioni di euro mentre Fonsai più le minoranze azionarie della controllata Milano valevano 440 milioni. Oggi, Unipol Gruppo Finanziario, la holding, vale più di 3 miliardi: detraendo aumenti di capitale e dividendi, le azioni hanno raddoppiato il loro valore. Unipol Sai, che deriva dalla fusione in Fonsai di Premafin, Milano e Unipol, è il secondo gruppo italiano, primo nel ramo danni. Ha coefficienti di solvibilità elevati e asseverati dal-l’Ivass. Paga 550 milioni di dividendi e vale 6,8 miliardi: rettificando l’originario valore di Fonsai per l’aumento di capitale, e per il successivo conferimento di Unipol Assicurazioni, meno i dividendi, la rivalutazione supera nettamente il 100%. Un affare per i vecchi azionisti, che hanno seguito gli aumenti di capitale, un affarone per i nuovi, che sono entrati comprando i diritti a niente. Chi è uscito, invece, ha perso un’occasione. Chi non ha potuto seguire, ha pagato pegno al gioco della Borsa. E da qui può partire la seconda interpretazione, sul sospetto che Unipol abbia goduto del favore dell’arbitro. In particolare la Consob. Mi pongo tre domande: a) c’erano alternative reali a Unipol?; b) Unipol e’ stata favorita dall’arbitro, segnatamente dalla Consob, e dunque chi non ha potuto seguire l’aumento di capitale è stato danneggiato?; c) quale lezione possiamo ricavare per la Consob? Alla prima domanda darei risposta negativa. In teoria un’alternativa avrebbe potuto esserci, in pratica no. Nella seconda metà del 2011 Fonsai era un gruppo scalabile attraverso un’Opa. Ma nessuno ci ha mai provato. All’estero nessun manager ritenne possibile proporre al proprio board di impegnare 2 miliardi assumendosi in aggiunta il rischio Ligresti e il rischio Italia derivante dai titoli di stato in pancia a Fonsai, con lo spread a 500 punti. Al tempo stesso, il fallimento di una compagnia, compresa tra le 30 considerate di rilievo sistemico in Europa, era visto con preoccupazione da governo e Banca d’Italia. Se dimentichiamo questi punti, ci facciamo un film fuori dalla realtà. A dicembre 2011 la Palladio Finanziaria di Vicenza prese contatto con Mediobanca, cui i Ligresti si erano affidati per evitare il fallimento delle ’loro’ società quotate. Voleva manifestare un interesse su Fonsai, senza alcuna Opa, ovviamente. Non venne giudicata in grado di avviare una vera e propria trattativa, perché non aveva le spalle abbastanza larghe. E’ vero che tra i suoi partner c’erano Intesa e Generali, e quest’ultima era pure azionista indiretta, tramite fondi off shore, della Palladio medesima. Ma Roberto Meneguzzo non poté mai contare sui loro denari. Palladio tornerà alla ribalta più tardi, con la Sator di Matteo Arpe, ma nel frattempo Mediobanca aveva contattato Unipol e Cimbri aveva acconsentito a trattare in regime di esclusiva. Unipol aveva le spalle larghe? Certo più degli altri pretendenti. Il consiglio di Fonsai non aprì mai un tavolo con Meneguzzo e Arpe. La sua maggioranza, espressa dai Ligresti ma in realtà obbediente alle banche creditrici (com’è normale quando si è sostanzialmente falliti), non si assunse mai la responsabilità di rompere con Unipol per andare a vedere le carte dei due finanzieri. Che proponevano una ricapitalizzazione più contenuta e una Fonsai stand alone. Il punto debole di Sator e Palladio era la totale assenza di chiarezza sulle fonti finanziarie reali. Di qui la loro sconfitta, ancorché godessero della simpatia del vasto partito anti-Mediobanca. Va ricordato che nella primavera del 2012, mentre al Governo sedeva il suo ex amministratore delegato Corrado Passera, Intesa Sanpaolo fece sapere che sarebbe scesa in campo senza dire come nè con chi, ma solo quando Unipol si fosse ritirata. Dunque, nella partita Fonsai non c’era il ’sistema’ contro gli ’outsider’, ma due pezzi del ’sistema’ in competizione tra loro. Alla fine l’ha spuntata la ruspante Unipol, il cui valore di Borsa consolidato è oggi pari a quello della blasonatissima Mediobanca. Alla seconda domanda risponderà la giustizia. Può essere utile tuttavia tener presente l’ipotesi di reato. Che consiste nel sospetto che Unipol abbia dolosamente evitato di svalutare, nella misura dovuta, titoli strutturati a scarsa o nulla liquidità in portafoglio per circa 7 miliardi allo scopo di spuntare rapporti di concambio più favorevoli. Il dolo consisterebbe nell’aver scritto certe cifre sapendo che non erano vere. Il fatto che svalutazioni di misura rilevante fossero richieste da Ernst Young dice poco: si tratta del consulente di parte Fonsai che parla nel corso di un negoziato per il suo cliente. La tara è d’obbligo. Più rilevante può essere il fatto che una tesi analoga sia sostenuta dal dirigente dell’Ufficio Analisi Quantitative della Consob, Maurizio Minenna. Il cui punto di vista non ha convinto il collegio, presieduto da Giuseppe Vegas, cui spettava la decisione finale. Ovviamente, nessun giornalista o politico è in grado di valutare nel merito l’analisi di Minenna. Dunque, mi limito a chiedere se l’analisi quantitativa sia una scienza esatta e temo di dover rispondere, sulla base dell’opinione degli stessi concorrenti di Unipol, che non lo è: questo tipo di analisi può essere utile al gestore di risorse finanziarie che deve scommettere sul futuro di titoli level 3, assai dubbio che possa emettere sentenze incontestabili, dunque utili in un processo, laddove perfino un Btp al 4% può valere pochissimo se lo devi vendere proprio quando lo spread è a 550 mentre sei mesi dopo può valere ben più della pari, se lo spread si è dimezzato. Quanto pesa in una trattativa la fotografia fatta all’istante e quanto il disegno di un futuro? La crisi ha suggerito di ripensare la religione del fair value. Confesso, tuttavia, la mia ignoranza e qui mi fermo. Probabilmente, il pm Orsi taglierà la testa al toro e il giudice farà il resto. Nell’attesa, venendo alla terza questione, mi domando se l’analisi quantitativa debba essere applicata solo in occasione della verifica dei rapporti di concambio o non anche in occasione della redazione dei bilanci, di aumenti di capitale o di emissioni obbligazionarie. E se l’applicazione sia stata fatta a tappeto sarei curioso di leggere un’inchiesta sulla attività della Consob in materia. Magari con qualche riferimento alle iniziative della Banca d’Italia e dell’Ivass. Mi domando infine come funzioni l’analisi quantitativa nelle Consob degli altri paesi dove i titoli level 3 riempiono i conti delle banche ben più che in Italia. Ma il punto critico è la governance della Commissione di controllo della Borsa. Anzitutto, il rapporto tra uffici e collegio. Agli uffici spetta il lavoro tecnico, da tenersi in alta considerazione. Al collegio spetta la decisione che può anche discostarsi dalle conclusioni degli uffici, altrimenti sarebbe inutile avere un collegio di commissari. Il punto conclusivo diventa così la composizione del collegio. Era di cinque membri esterni. Il governo Monti l’ha ridotto a tre per risparmiare. Da dicembre manca il terzo commissario perché né il governo Letta né il governo Renzi hanno provveduto alla sostituzione. A suo tempo decise Vegas utilizzando il voto doppio del presidente in caso di stallo. Ma di questo si deve chiedere conto ai governi, non alla Consob. Anche perché oggi, in una commissione a due, il presidente diventa ancora più il padrone non per merito né per colpa sua. Semmai l’esperienza può suggerire una riflessione sulla selezione dei commissari dall’esterno. Non sempre è stata felice. Forse varrebbe la pena di copiare il modello del Direttorio della Banca d’Italia, formato dai migliori interni ma distaccato funzionalmente dagli uffici. Ma nell’era del tweet le soluzioni troppo sofisticate appaiono spesso troppo complicate.

Massimo Mucchetti*, Affari&Finanza – la Repubblica 2/6/2014

* senatore Pd e presidente della Commissione Industria del Senato.