Bernardo Valli, la Repubblica 2/6/2014, 2 giugno 2014
RITORNO A OMAHA BEACH DOVE NACQUE LA POTENZA USA
CAEN
Il tempo non doveva essere molto diverso : una leggera foschia e il mare non troppo quieto, in più punti agitato.
I residui delle forti perturbazioni delle ultime ventiquattro ore sono ancora visibili. Il cielo arruffato lascia incerti i servizi meteorologici come settant’anni fa inquietava il colonnello Stagg, l’ufficiale scozzese al servizio del generale Dwight D. Eisenhower.
Grigio e pioggia, quasi rugiada, sui pascoli di un verde smalto, leggermente ondulati, cintati da filari d’alberi esuberanti e da arbusti ad altezza d’uomo, si addicono alla Normandia umida e fertile. In questo paesaggio rurale, chiamato «bocage», i carristi inglesi e americani rimanevano impigliati, e allora si rassegnavano a percorrere le strade battute dall’artiglieria o imbottite di mine. Una campagna incantata per contadini e pittori, e un inferno per gli M4 Sherman decimati come selvaggina dai panzerfaust, i bazooka dei tedeschi. Per fortuna la Luftwaffe del maresciallo Goering era quasi assente nel cielo normanno.
Ma le nubi, compatte anche in questa mattina di settant’anni dopo, potevano ridimensionare S-WORD la J-UNO netta superiorità dell’aviazione alleata, su cui contava l’operazione Overlord per tenere a bada le divisioni tedesche del Vallo atlantico, l’imponente sistema difensivo costruito da Hitler per impedire sbarchi nemici. Il 4 giugno fu dunque deciso un rinvio. Forse anche oggi, visto il tempo piuttosto simile, sarebbe stata fatta la stessa scelta. Come allora non mancherebbero tuttavia motivate obiezioni. A non essere d’accordo in quel lontano giugno era il generale Bernard Montgomery. Per la verità non lo era quasi mai. Il già mitico comandante su tanti fronti della guerra mondiale in corso, dall’Africa all’Italia, aveva un carattere difficile. In quell’occasione non aveva torto: un ritardo rischiava di scompigliare l’organizzazione delle truppe di terra, di cui era responsabile. L’ammiraglio Ramsay fece invece notare la difficoltà di aggiustare i tiri dei cannoni nel caso di una scarsa visibilità. Lasciò tuttavia la decisione a Eisenhower.
A 53 anni l’americano Eisenhower, detto “Ike”, futuro presidente degli Stati Uniti, era il responsabile dell’operazione senza avere un’esperienza diretta dei campi di battaglia. Aveva fatto carriera negli Stati maggiori. Questo non aumentava il suo prestigio agli occhi di Montgomery, l’altezzoso inglese di 57 anni, diventato visconte di El Alamein dopo la campagna vittoriosa di Libia. Eisenhower non ci faceva caso. Sapeva apprezzare i bravi generali con un cattivo carattere. Anche se Montgomery, suo sottoposto, lo metteva a dura prova. Per questo, durante tutta la lunga battaglia di Normandia, lo incontrò di persona soltanto nove volmery, te. Poche, per i due principali responsabili della gigantesca operazione. Allora, il quattro giugno, Eisenhower decise comunque di ritardare di ventiquattro ore lo sbarco. Soltanto il giorno successivo, il cinque giugno, poco dopo le quattro del mattino, e dopo un’altra breve esitazione, lo fissò per l’indomani: il 6 giugno 1944. Il D-Day. Un ulteriore ritardo avrebbe potuto mettere in allerta i tedeschi.
L’effetto sorpresa era decisivo. Il cattivo tempo e le astute iniziative alleate (finti camion e aerei di gomma disseminati nel non lontano Pas-de-Calais) traevano in inganno i generali tedeschi, convinti che il mare agitato, la foschia e il cielo minaccioso non consentissero uno sbarco. Erano inoltre convinti che gli alleati l’avrebbero tentato in un altro punto della costa, più vicino a quella inglese. Anche una vecchia volpe, di 53 anni, come Erwin Rommel si lasciò ingannare. Il maresciallo se la prese comoda. Sicuro che non ci fosse nulla da temere nell’immediato, l’ex comandante dell’Afrika Korps, celebrato dagli strateghi, compresi quelli nemici, benché sconfitto nel deserto da Montgomery abbandonò il quartier generale di La Roche-Guyon proprio il cinque mattina. Voleva essere in tempo per il compleanno della moglie nella casa di famiglia, a Herrlingen, vicino a Ulm. Poi sarebbe andato da Hitler. Voleva chiedergli altre due divisioni corazzate per la Normandia. Sempre in quelle ore il generale Dollmann, capo della Settima armata, partecipava a Rennes a un Kriegspiel (esercizio simulato). Il generale Marcks, dell’Ottantaquattresimo Corpo d’armata, festeggiava a champagne i suoi 53 anni. E così tanti altri generali tedeschi non erano in quelle ore ai loro posti di comando. Eppure c’era stato un segnale che avrebbe dovuto inquietarli. Radio Londra aveva mandato un messaggio alla Resistenza francese di cui i servizi tedeschi non ignoravano del tutto il significato: aveva trasmesso i primi tre versi (Bles-sent mon coeur/ D’une lan-gueur/ Monotone) della Canzone d’Autunno di Paul Verlaine. Il 5 giugno, verso le 9.15 di sera, lo stato maggiore della Quindicesima armata aveva captato quelle parole che mettevano in stato d’allerta i partigiani. I vari comandi erano stati avvisati, ma non avevano preso troppo sul serio l’informazione, non avevano creduto a un annuncio dello sbarco.
Il tentativo di rivivere sette decenni dopo un avvenimento bellico che ha segnato una svolta nella storia, e non soltanto in quella del Ventesimo secolo, invita a tentare di immergersi nell’atmosfera di quelle ore. Il paesaggio è cambiato. Non ci sono più tracce delle ferite, delle distruzioni. C’è qualche carro armato esibito come cimelio. Ci sono molte lapidi rievocative. E alla vigilia della celebrazione ci sono le bandiere dei paesi che parteciparono all’invasione. Alberghi, ristoranti, case secondarie improvvisate per villeggianti delle classi medie, occupano le spiagge, Ma la più bagnata dal sangue americano, Omaha Beach, è stata risparmiata. È intatta. Vuota. Vi sorgono soltanto dei castelli di sabbia costruiti da piccoli francesi in vacanza. Sopravvivono eterni i cimiteri, ampie aree imbiancate nella Bassa Normandia verde, ritornata normale. A Caen, capoluogo del Calvados, si sente che è stata ricostruita. Lo rivelano le strade geometriche, i palazzi allineati e spesso identici, come accade nei centri distrutti dalla guerra e ridisegnati dagli urbanisti (di tendenza gotica, quelli francesi) nella fretta di una pace ritrovata. Caen è stata una piccola Stalingrado. La battaglia, durata più di settanta giorni, tra i soldati di von Rundsedt e Montgomery ha distrutto i tre quarti della città, e non ha contribuito alla fama di chi aveva il comando. Hitler ha rimproverato al maresciallo tedesco di avere perduto la battaglia, e al maresciallo inglese è stato rimproverato di avere messo troppo tempo per conquistare la città e di avere avuto troppi morti.
Prima di raccontare lo sbarco, ho accennato appena alle ore che l’hanno preceduto, ai dubbi dei comandanti, al tempo incerto che ha condizionato lo svolgimento della più grande operazione militare della storia. Tutti dettagli di un avvenimento alla cui preparazione si erano dedicati per anni strateghi, tecnici e capi di Stato e di governo, non sempre consapevoli di star cambiando gli equilibri politici e militari del mondo.
All’alba cinque divisioni alleate sbarcano sugli ottanta chilometri di costa che vanno dagli estremi sobborghi di Caen alla base della penisola del Cotentin. Le spiagge indicate sulle mappe dettagliate dello stato maggiore sono cinque, e a ciascuna è stato dato un nome in codice, ancora oggi scritto sui cartelli che guidano turisti e pellegrini. Sword Beach è la più a Est; poi Juno, Gold, Omaha; e infine Utah Beach a Ovest. Quest’ultima, Utah, è una delle due spiagge affidate agli americani, che la conquistano senza grandi difficoltà. La corrente è forte e sposta di più di due chilometri a Sud dell’obiettivo i mezzi da sbarco. Dai quali escono soldati storditi dal mal di mare. Durante la navigazione hanno vomitato le abbondanti colazioni fatte alla partenza dalla costa inglese. La resistenza tedesca è sporadica e gli americani superano abbastanza facilmente la spiaggia. Prima del tramonto le punte avanzate raggiungono le unità di paracadutisti lanciate su Sainte-Mère-Église. Dei ventitremila uomini approdati a Utah il primo giorno ne vengono uccisi centonovantasette. Meno rispetto alle previsioni.
All’altra estremità, vicino a Caen, a Sword Beach, gli inglesi riescono a stabilire abbastanza presto un contatto con i paracadutisti già appostati sulle sponde dell’Orne e del canale non lontano da Rainville. Anche da Gold Beach si staccano e si inoltrano nel retroterra altri reparti in direzione di Bayeux. I canadesi, occupata Juno Beach, si attestano in prossimità di Courselles-sur-Mer. I bombardamenti aerei e navali, accompagnati dall’artiglieria e dai mezzi corazzati, riducono la capacità di resistenza delle truppe tedesche. La spiaggia è piatta, la sabbia è ferma, non intralcia l’avanzata dei mezzi cingolati. La Terza divisione di fanteria canadese è quella che penetra più in profondità: otto chilometri.
A Omaha Beach, seconda spiaggia americana, tutto va invece storto. Il mare agitato, violento, sommerge i mezzi da sbarco, travolge le chiatte, danneggia quasi tutti i carri anfibi e distrugge i cannoni leggeri da 105 mm. Così le truppe mettono piede a terra senza l’appoggio essenziale d’artiglieria e autoblindo. La foschia fa mancare gli obiettivi agli attacchi aerei e quindi la reazione tedesca, anche grazie ai rinforzi ricevuti, è più tenace che altrove. Infligge serie perdite agli americani, non favoriti dalla spiaggia stretta sui fianchi da promontori e sbarrata da una scogliera a picco al vertice della quale i difensori hanno posizioni al momento inespugnabili.
Molti uomini della Prima e della Ventinovesima divisione ricevono in quell’inferno il battesimo del fuoco. Si scoprono imprigionati tra la scogliera e il mare, in mezzo ai relitti che ingombrano la spiaggia e impediscono l’arrivo di rinforzi. Vent’anni dopo Eisenhower ricorderà che a Omaha Beach «tutto quello che poteva fallire era fallito «. A mezzogiorno il generale Bradley pensa di ritirare le truppe e di riversarle su Gold Beach, ma si accorge di non avere i mezzi per rimbarcare i soldati.
È da tempo una leggenda, evocata da tutti gli storici (mi riferisco in particolare a Jean-Pierre Azéma, Robert O. Paxton, Philippe Burin), il ruolo avuto in quella situazione disastrosa dal colonnello George Taylor, del Sedicesimo reggimento di fanteria. L’ufficiale dice ai suoi: «Su questa spiaggia ci sono due tipi di uomo. Quelli morti e quelli che stanno per morire. Usciamo da qui». E subito tenta di superare la diga creata dai relitti e di scalare la scogliera, usando ramponi e corde da alpinista, sotto i tiri e le granate dei tedeschi. Molti ufficiali subalterni, tenenti e capitani, e sottufficiali daranno l’esempio. Ed è così che gli americani di Omaha Beach usciranno dalla trappola micidiale. Anche se al prezzo di duemila morti.
Non è poi tanto azzardato affermare che a Omaha Beach gli Stati Uniti abbiano conquistato il titolo di superpotenza mondiale. Quando nel dicembre di tre anni prima, nel dicembre 1941, sono trascinati nella guerra dal Giappone (e poi da Germania e Italia), i generali americani devono trasformare il loro modesto esercito, «una polizia di frontiera », in vere forze armate. Oltre Atlantico non manca una tradizione militare. La Guerra di secessione (1861-1865) è stato il primo grande conflitto moderno, e un corpo di spedizione americano ha contribuito in modo determinante alla vittoria alleata, nella fase finale della Grande guerra (1914-1918). Ma nel 1941 l’esercito degli Stati Uniti conta 190 mila uomini. Quattro anni dopo ne conterà 8 milioni e trecentomila. Mentre i marines, distinti dall’esercito, sono impegnati soprattutto nel Pacifico, contro il Giappone, l’esercito viene impiegato sul fronte occidentale. Le divisioni che affrontano per prime i duri veterani tedeschi nell’Africa settentrionale si rivelano impreparate e i loro comandanti sono in gran parte sostituiti da quelli che poi riveleranno le loro qualità sul fronte italiano e più tardi, nel giugno ‘44, in Normandia e in Germania. Tra questi il generale Patton.
Il principio di un’invasione dell’Europa per liberarla dall’occupazione nazista è stabilito dall’entrata in guerra degli Stati Uniti. E prima ancora che venga fissato il luogo e la data dello sbarco si forma via via in Gran Bretagna un’immensa forza militare, in cui sono rappresentate otto nazioni. L’obiettivo è di costringere Hitler a difendere tutta la costa dell’Atlantico e della Manica. I soldati americani sono i più numerosi. Sono circa tre milioni. E tra il 1942 e il 1945 diventano una presenza che conta nella società delle isole britanniche. I rapporti non sono sempre facili. Gli americani sono visti, secondo una battuta inglese dell’epoca, come individui «superalimentati, superpagati, supereccitati e sulle nostre spalle». Bevono troppo, sono troppo assillanti con le ragazze (i figli di donne nubili triplicheranno in quegli anni), e sono troppo razzisti con i neri del loro stesso esercito. A quest’ultima accusa gli americani rispondono rimproverando agli inglesi il loro colonialismo.
Il 6 giugno la presenza degli americani sulle spiagge normanne non è schiacciante rispetto a quella inglese e canadese. Questi ultimi hanno settantaduemila fanti e ottomila uomini delle truppe aerotrasportate. Gli americani hanno cinquantasette mila fanti e sedicimila uomini delle truppe aerotrasportate. Ma è la forza navale impiegata quel giorno che dà la superiorità alla Gran Bretagna: l’ottanta per cento appartiene alla Royal Navy, e soltanto il sedici alla US Navy. Un mese e mezzo dopo in Normandia ci sono ottocentododicimila americani, poco più di mezzo milione di inglesi, centomila canadesi e piccole unità francesi e polacche. La potenza dell’industria bellica, il numero di uomini sui campi di battaglia e i mezzi della immensa logistica al seguito danno agli Stati Uniti una superiorità alla quale gli inglesi, fino allora convinti di essere la nazione guida, si devono piegare. Già nell’Africa del Nord e poi con gli sbarchi in Sicilia e ad Anzio il ruolo degli Stati Uniti era diventato via via preminente. Ma a Omaha Beach (e nella guerra del Pacifico) esso si afferma, anche per i decenni successivi.
Le truppe del generale Mark Waine Clark entrarono a Roma poche ore prima dello sbarco in Francia. Le notizie dai due fronti si accavallarono nei bollettini di guerra alleati. La liberazione dell’Europa dal nazismo richiederà ancora mesi di combattimenti, ma era arrivata a un punto cruciale. Al tempo stesso, mentre era in corso la sofferta ed esaltante emancipazione, il Vecchio continente viveva un altro capitolo del suo declino storico. Pur ammettendone la necessità, Winston Churchill aveva avanzato qualche riserva sull’invasione frontale da attuare in Normandia. A quella strategia degli Stati Uniti ne avrebbe forse preferito una meno rischiosa, meno affidata alla schiacciante superiorità dei mezzi, più articolata nel tempo e sul terreno. Ma aveva prevalso l’idea di chi disponeva, appunto, di una potenza industriale e di un apparato militare senza pari. In quei giorni si è imposta la superpotenza americana.
Stalin chiedeva con insistenza da anni l’apertura di un fronte nord-occidentale capace di alleggerire il peso tedesco su quello orientale. Lo sbarco in Normandia non poteva più essere ritardato. A questa urgenza imposta dalla pressante domanda del Cremlino, si aggiungeva la necessità, altrettanto urgente, di non lasciare che i sovietici, passati con successo all’offensiva dopo la battaglia di Stalingrado, liberassero gran parte dell’Europa prima degli anglosassoni. Si profilava insomma tra gli alleati-rivali una corsa che poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale sarebbe diventata la guerra fredda tra l’Est e l’Ovest.
Nel giugno del ‘44 Charles de Gaulle era il capo del Governo provvisorio della Repubblica francese. Ma non godeva né della simpatia né della fiducia del presidente americano. Roosevelt non poteva sopportare il caparbio generale di brigata francese (a titolo provvisorio). Neppure Churchill gli riservava un appoggio incondizionato, nonostante l’avesse sostenuto nel suo coraggioso rifiuto della resa ai tedeschi, e nella sua audace creazione della Francia Libera.
De Gaulle ha ignorato fino all’ultimo la data dello sbarco. Ne fu informato da Eisenhower soltanto tre giorni prima. E tra i due ci fu un’accesa discussione sul comunicato da diffondere per radio in Francia. De Gaulle non volle sottoscrivere quello americano, in una posizione subordinata. E lanciò un suo messaggio. Il compassato Eisenhower perse la pazienza e non lo nascose. Dubitando, come Roosevelt, che incarnasse la legittimità della nazione, Churchill avrebbe voluto impedire a de Gaulle di mettere piede in Francia in quei giorni. Ma il 14 giugno il capo della Francia Libera, a bordo del cacciatorpediniere francese La Combattante , reduce dallo sbarco alleato, salpò lo stesso per la Normandia. La nave si guastò a due chilometri dalla costa, e de Gaulle proseguì con un anfibio fino alle dune deserte di Juno Beach, conquistata dai canadesi giorni prima.
I comandi alleati avevano l’ordine di accoglierlo con cortesia ma di non permettergli riunioni pubbliche. De Gaulle si infischiò di quelle restrizioni e percorse la strada principale di Bayeux, piccolo capoluogo del bacino normanno, tra una folla festante. Ma non delirante. Fu trenta chilometri dopo, a Isigny, località quasi rasa al suolo dai bombardamenti, che ci fu il trionfo. E via via de Gaulle, anche per la decisa azione della resistenza che aveva saputo unificare, fu riconosciuto come il capo della Francia liberata dagli alleati. I quali rinunciarono a emettere una moneta d’occupazione, come in Italia, e lasciarono ai francesi il diritto di governarsi da soli. E a figurare poi tra i vincitori.
Bernardo Valli, la Repubblica 2/6/2014