Emiliano Liuzzi, Il Fatto Quotidiano 3/6/2014, 3 giugno 2014
CAOS RAI: IN FUGA CON IL MALLOPPO
Il problema non è solo la svendita di Rai Way per il bisogno di danaro cash da parte del governo, ma anche il mancato rinnovo della concessione pubblica previsto dalle legge Gasparri, la riforma del servizio pubblico e lo svincolo sulle nomine da parte dei partiti. Tutte questioni che arrivano sul piatto di Matteo Renzi in queste ultime ore e, più che un “bagno di folla”, come titolano i giornali ogni volta che mette il naso fuori da Palazzo Chigi, rischia di trasformarsi in un cespuglio di spine. È vero, Rai Way è l’unica società che può dare liquidità immediata e che, sostanzialmente è già nelle casse del governo che ha riscosso il canone, ma non l’ha versato alla Rai. Ma se non si affrontano i nodi principali lo sciopero dell’11 giugno resta confermato, a parte le timide aperture della Cisl e lo scontro all’interno del Tg3 che ha costretto il comitato di redazione con una raccolta di firme a convocare un’assemblea. “Rai Way è strategica”, dice il leader dell’Usigrai, Vittorio Di Trapani al Fatto, “il problema del servizio pubblico non si affronta a comparti stagni, ma nel suo complesso”. Renzi, da parte sua, dice che lo sciopero Rai “sarebbe svilente”.
QUANTO VALE RAI WAY. La cosa principale in queste ore è capire se vale due spiccioli, 150 milioni, la società proprietaria del segnale Rai. No, è la risposta. Varrebbe molto, ma molto di più. La necessità non è venderla, ma avere denaro subito. La struttura che controlla le 2300 torri che trasmettono il segnale era già stata fatta valutare dall’ex direttore generale Claudio Cappon e aveva avviato la trattativa 14 anni fa: una quota passava al colosso americano Crowne Castle per 800 miliardi di lire, ma avrebbe dato la possibilità alla Rai, 14 anni fa appunto, di inserirsi nel mercato della telefonia. Questo avrebbe portato progressivamente centinaia di milioni di euro ogni anno nei bilanci di viale Mazzini. Per questo oggi i 150 milioni di euro sono spiccioli. Ma non solo. Il passaggio naturale di Rai Way, come sostiene un vecchio perno dell’azienda, Loris Mazzetti, sarebbe quello di una valutazione in Borsa: a quel punto i ricavi sarebbero dieci volte superiori. Ma non c’è tempo: Renzi i soldi li vuole e subito, non può attendere un anno.
Ma se da una parte autorevoli costituzionalisti come Alessandro Pace intravedono una manovra anticostituzionale e sulla quale la Corte dei conti andrebbe a fare le pulci due ore dopo, dall’altra scoperchia una serie di questioni che negli ultimi 20 anni in questo Paese non sono mai state affrontate: il conflitto d’interessi, dunque Silvio Berlusconi. Fu il suo governo, all’epoca, a evitare che la società venisse privatizzata. Ma lo fece per l’interesse di casa, dunque Mediaset. Oggi, invece, il giocattolo Rai Way servirebbe a rafforzarlo Silvio Berlusconi perché, allora, la trattativa era con gli americani, oggi la società potrebbe acquistarla Mediaset o un’azienda della galassia, e dunque toglierebbe alla Rai il monopolio del segnale. Questo vorrebbe dire avere la produzione tv e non la trasmissione del segnale. Praticamente un puzzle che non può essere riempito.
LOTTIZZATI NE PURGATI. E qui si torna al denaro cash, a quei 150 milioni. Ma la Rai ha un problema gigantesco innescato dalla legge Gasparri: nel 2016 scadrà la concessione del servizio pubblico. È scritto nero sui bianco. Lo ripete l’Usigrai, lo dice un personaggio che l’azienda la conosce bene come Giovanni Minoli, lo ribadiscono i direttori di vario grado che in questi giorni preferiscono tacere per opportunità politica.
Renzi sbandiera la vendita di Rai Way come la fine della lottizzazione dei partiti. Ma le due cose non sono direttamente collegate. Almeno fino a quando Renzi non avrà l’intenzione di sedersi al tavolo coi sindacati. La Rai tra due anni perde la concessione e vuol dire una cosa precisa: non può firmare contratti oltre a quella data, maggio 2016. Potrebbe non esistere l’azienda. Secondo, i 150 milioni sono parte della copertura degli 80 euro, ma la Rai continuerebbe a spendere un miliardo e 300 milioni di euro per gli appalti esterni.
Un esempio lo fa ancora Mazzetti, autore di Che tempo che fa e di Glob: “Alla sola sede di Bologna ogni giorno vengono dati in appalto dai 4 ai sette servizi al giorno per un totale di un milione di euro; la produzione dei giornalisti è di due, tre minuti e, soprattutto, non producono più niente”.
D’accordo con lui anche l’ex direttore generale dell’azienda, Pierluigi Celli: “Ci sono strutture regionali che non sono tollerabili, penso a quella di Firenze o Bologna stessa, nate con il compito di produrre programmi e che invece oggi non producono proprio niente. Ma non solo: il potere dei partiti sulle sedi regionali è assoluto e incontrollato. La sede di San Marino, poi, non ha più senso di esistere”. Massimo Giletti, giornalista, conduttore dell’Arena, punta il dito contro la sede di Sassari, 900 metri quadri, oltre a quella di Cagliari. E Celli, con lui, spiega che “sì, esiste anche un problema di strutture, di sedi, ma non lo ridurrei a questo. Il problema è la riforma della Rai”.
FINALE DI PARTITA. Non sappiamo a oggi se il finale della partita sarà lo sciopero, ma il fronte Rai, a oggi, è compatto. Per la prima volta si discute di teste da tagliare. Renzi è entrato sull’argomento senza nessuna cautela. E contro lo sciopero, oggi, sono davvero in pochi se si escludono le timide aperture della Cisl: o cambia rotta e affronta la situazione in termini complessivi o la partita Rai diventa una patata bollente. Per lui e per il governo.
Emiliano Liuzzi, Il Fatto Quotidiano 3/6/2014