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 2014  giugno 03 Martedì calendario

LA SFIDA PIÙ DIFFICILE PER LA MONARCHIA


La notizia è clamorosa, ma non sorprendente. Da molti mesi, ormai, l’ipotesi che Juan Carlos abdicasse al trono di Spagna veniva presa in seria considerazione negli ambienti politici.
I motivi erano molteplici. Le condizioni di salute, certo. Juan Carlos porta male i suoi 76 anni, ha subito varie operazioni e da qualche tempo compare in pubblico con andatura malferma, si appoggia ad un bastone, e in un’occasione ha dato prova, in un discorso ufficiale, di una sorta di vuoto di memoria e concentrazione.
Ma dietro questo motivo, per quanto autentico e non pretestuoso, vi è ben altro. In un momento in cui anche in Spagna, come da noi, il tema della corruzione suscita rigetto ed indignazione in una società profondamente colpita dalla crisi economica, la stessa famiglia reale risulta tutt’altro che insospettabile. Il genero del re, marito dell’infanta Cristina, è risultato coinvolto in uno scandalo a base di contratti di consulenza fittizi e frode fiscale. Quello che è peggio, è che la figlia del re risulta titolare al 50 per cento della società su cui venivano dirottate le somme indebitamente riscosse per le attività di un’altra società, dichiarata «non a fine di lucro». Insomma, una storiaccia, aggravata dal fatto che, chiamata a deporre dopo un avviso di reato, Cristina ha giocato, con assai scarsa credibilità, la parte della moglie ignara che firma le carte sottopostegli dal marito senza capire e senza chiedere. Le decisioni della magistratura non dovrebbero tardare, e risulteranno di certo traumatiche per la corte.
Dalla salute e dallo scandalo che tocca la famiglia reale è tuttavia necessario alzare lo sguardo verso il dato più sostanziale, quello politico, e riflettere sul ruolo della monarchia nella storia di Spagna e nell’attuale congiuntura politico-istituzionale.
Esiste nel Paese un consenso pressoché unanime sul ruolo centrale della monarchia, e personalmente di Juan Carlos, nel difficile passaggio dalla dittatura franchista alla democrazia attraverso una transizione oggettivamente difficile e, fino al tentativo di golpe del 1981, fragile. E gli spagnoli non hanno dimenticato che se la giovane democrazia spagnola non venne travolta fu perché in quelle ore spasmodiche e non prive di ambiguità da parte dei vertici della forze armate Juan Carlos si schierò contro i golpisti, che secondo alcune ricostruzioni avevano contato quanto meno sulla sua passività.
In Spagna – ed è importante sottolinearlo per i lettori italiani – esiste un forte senso dello Stato, prodotto di una sua secolare continuità e in un certo senso retaggio di un passato imperiale. Anche nell’attuale fase caratterizzata a livello globale da crisi economica e sempre più evidente crisi della democrazia i cittadini spagnoli tendono a riconoscersi nelle istituzioni pubbliche, e a legittimarle. Un recente sondaggio di opinione faceva emergere dati su cui vale la pena riflettere, da cui emerge una valutazione positiva della Guardia Civil (85%), la polizia (83%), i medici del sistema sanitario pubblico (92%), gli insegnanti della scuola pubblica (85%), la pubblica amministrazione (70%), le Forze Armate (72%), la magistratura (50%). E questo in un momento in cui non manca invece una critica radicale alle banche (con un tasso di approvazione del 15%), al governo (21%), ai partiti politici (12%) e infine, ultimi in classifica, ai politici (6%).
Significativamente, il País pubblicava lo scorso agosto queste statistiche sotto il titolo: «Ecco perché la Spagna non affonda». Crisi della politica ma non dello Stato. Eppure questa radicale dicotomia risulta sempre meno sostenibile, e la stessa monarchia, che dello Stato è oggi la forma istituzionale, non può non risultare in difficoltà.
Le recenti elezioni europee hanno senza dubbio fatto comprendere alla monarchia spagnola di trovarsi di fronte a una situazione di crisi politica che ben difficilmente, alla lunga, potrebbe evitare di trasformarsi in crisi istituzionale. Il fatto che i due principali partiti, il Partido Popular, oggi al governo, e il Partito Socialista (Psoe) siano arrivati insieme a raccogliere solo circa la metà dei voti espressi non fa certo ben sperare sulla futura stabilità del Paese.
E qui emerge quella che è probabilmente la sfida principale per la monarchia, il cui ruolo, una volta consolidata la democrazia, è diventato soprattutto quello di simbolo e garante dell’unità di un Paese storicamente differenziato: la spinta indipendentista della Catalogna, dove le elezioni hanno confermato il consolidamento, con circa la metà dell’elettorato, dei partiti a favore dell’indipendenza. Ed è significativo che nell’ambito dello schieramento indipendentista chi abbia riscosso la maggiore crescita di consensi sia la Sinistra Repubblicana (Erc).
La sfida catalana è seria. Lo è diventata rapidamente, dopo essere stata endemica ma minoritaria per decenni, in relazione a fenomeni non solo spagnoli (pensiamo alla Scozia), ma che in Spagna si alimentano delle frustrazioni per l’attuale crisi economica che in Catalogna, regione sviluppata e industriale, tendono a risvegliare la tentazione di «salvarsi da soli» abbandonando una solidarietà nazionale vista come un peso da cui affrancarsi. Il partito che a Barcellona governa, CiU (un partito liberal-conservatore) ha indetto un referendum sull’indipendenza per il 9 novembre. Un referendum incostituzionale e quindi difficilmente accettabile da parte di Madrid, dove prevedibilmente il nazionalismo catalano ha risvegliato un nazionalismo centralista che finora – vaccinati com’erano gli spagnoli dall’esperienza del franchismo – era rimasto debole e sotto traccia. Dietro la questione catalana rimane poi aperta la questione basca. E’ evidente infatti che un processo indipendentista catalano finirebbe per rafforzare le spinte secessioniste nel Paese Basco, oggi portate avanti con maggiore cautela dai nazionalisti, sia conservatori che radicali, dopo gli atroci anni del terrorismo dell’Eta.
Evidentemente non esiste compito più fondamentale, per una monarchia, che cercare di gestire le spinte che potrebbero portare alla frammentazione del Paese. Le stesse sorti della monarchia risultano in gioco.
Fino a tempi piuttosto recenti l’opzione repubblicana era in Spagna piuttosto il riferimento ideale, nostalgico, di una parte minoritaria della popolazione piuttosto che una piattaforma politica, con la sola eccezione dell’Erc catalano. Anche la sinistra, Psoe e Izquierda Unida (un partito che in termini italiani si collocherebbe fra Sel e Rifondazione) preferivano non sollevare la questione istituzionale. Ricordo la battuta di un diplomatico spagnolo che, quando un collega francese si espresse in modo sarcastico sulla permanenza in Spagna della monarchia, istituzione premoderna, rispose: «Mio caro, voi avete una repubblica monarchica. Noi una monarchia repubblicana».
Ma l’istituzione monarchica spagnola ha continuato negli ultimi anni a deteriorarsi nell’opinione pubblica, arrivando recentemente a far registrare un tasso di approvazione del solo, 3,7 su 10. Evidentemente per gli spagnoli Stato e monarchia non coincidono necessariamente. E che oggi le cose stiano cambiando, e in modo pericoloso per il futuro della monarchia, lo dimostra il fatto che, nei primi commenti «a caldo» sull’abdicazione di Juan Carlos, Izquierda Unida e il nuovo partito Podemos (espressione del movimento degli indignados) abbiano preso posizione a favore di un referendum istituzionale su monarchia o repubblica.
Il Principe de Asturias sale al trono di Spagna - come Felipe VI - apparentemente con tutte le carte in regola: è solo quarantasettenne (quindi rappresenta, come ha tenuto a sottolineare Juan Carlos in un breve commiato televisivo, una nuova generazione), non è mai stato sfiorato da scandali, è serio, di bella presenza, preparato, con un’approvazione, secondo i sondaggi, del 62% dell’opinione pubblica (contro il 50% del padre). Ma il suo compito sarà tutt’altro che facile.

Roberto Toscano, La Stampa 3/6/2014