Domenico Quirico, La Stampa 3/6/2014, 3 giugno 2014
UNO, CENTO, MILLE MEHDI : COSÌ DA DAMASCO AL QAEDA PREPARA L’ASSALTO ALL’EUROPA
I compagni di Mehdi Nemmouche, il jihadista francese che ha seminato la morte al museo ebraico, li ho incontrati in Siria, due anni fa. Eravamo entrati in un edificio bombardato, lo scheletro a nudo era pieno di chiarore e di calcinacci e tremava come un battello. Ci arrampicammo nella sala di quella casa della quale tutto il mistero era svanito e che era peggio che vuota. Lasciava vedere dei residui di eleganze e di lusso: un bell’armadio mal connesso che si putrefaceva, come dissepolto, un piancito incipriato di bianco cosparso di piatti rotti, di libri rivoltati e di frammenti fragili che a calpestarli gridavano.
Attraverso la finestra dai vetri rotti una tenda impiccata ad un angolo si dibatteva come un pipistrello. Un mondo di rumori nasceva in lontananza. Colpi di fuoco si avvicinavano, si moltiplicavano da tutte le parti, brontolii di mortaio dei regolari che erano a non più di cento metri, oltre la trincea di rovine, si estendevano sotto i nostri piedi e sopra la nostra testa.
I cinque ragazzi erano arrivati in moto, rombando, tra i ruderi. Non le moto siriane stile Anni Cinquanta, con il fregio dell’aquila sul paraurti, moto da cross giapponesi, nuove di zecca. Eran vestiti di nero, alcuni con il turbante, la divisa dei gruppi radicali, le armi le tenevano in spalla negligentemente, come se la guerra fosse lontana. Mi accorsi che non erano siriani quando li sentii parlar tra loro francese, il francese imbastardito, un po’ aspro, delle «banlieues». «Attenzione! il passaggio scoperto…»: mi avvertì con un sorriso gentile quello che sembrava il capo ed era più giovane degli altri. Un muro di calcinacci ci si parava davanti; nessuna via di uscita. La trincea naturale cessava improvvisamente per riprendere, sembrava, più lontano.
«E allora?» chiesi macchinalmente. Mi spiegò sempre sorridendo come se aiutasse un bambino: «Ti chinerai e striscerai». I ragazzi francesi prendevano lo slancio, a uno a uno, e si gettavano di corsa nella zona scoperta, e gli altri li incitavano come fosse un gioco, sfidare il tonitruare dei mortai dirompente e abbagliante. Mi decisi attaccandomi con accanimento alle tracce di un corpo che mi correva davanti, il giovane comandante. E mi ritrovai al riparo.
Il ragazzo si mise a ridere: «Per stavolta non siamo morti!». Mi raccontò mentre avanzavamo l’uno dietro l’altro nella strettezza del solco scavato in profondità tra le macerie, loro anfananti sotto il peso delle armi, mi raccontò che venivano tutti da Tolosa, lo stesso quartiere, la stessa periferia. Una piccola banda di volontari. Il rumore della battaglia si perdeva, ora, come si perdono in fondo a un pozzo suoni venuti dalla profondità della terra: lì c’era il mondo della guerra e vi restavano dentro come entro un tepore. Era quello che quei ragazzi erano venuti a cercare. La guerra, la morte, vi si adattavano per istinto come ad una amicizia improvvisa.
«Perché siamo venuti qui? Quando i nostri amici ci hanno raccontato su Facebook che gli sbirri di Bashar uccidevano le donne… capisci? Era come se avessero cercato di uccidere mia madre o mia sorella...».
Non era passato, come Mehdi, attraverso la malavita, non era stata la galera la sua scuola di estrema redenzione. Il nonno, immigrato algerino, lavorava come operaio, era lui che aveva ottenuto la cittadinanza francese, il passaporto per l’eguaglianza. Le laicissime scuole francesi, il bac, e poi si era trovato senza denaro, munito solo di diplomi senza valore. Davanti ai suoi ventiquattro anni e alla Siria in guerra. Fattorino, commesso, poi nulla. La moschea quella sì, e il predicatore che gridava: «In Siria c’è il jihad, i buoni musulmani muoiono, che fate qui, voi, in questa terra di senza dio?».
Tutto lo precipitava verso l’azione, la speranza di un mondo diverso, la possibilità di mangiare, sia pur miseramente (la sua brigata era austera), la soddisfazione dei suoi odi, del suo pensiero, del suo carattere. L’azione dava il senso alla sua solitudine. Assicurano che di ragazzi così, francesi, tra i 40 mila «volontari» stranieri, ce ne siano almeno ottocento: e poi gli altri, tedeschi, inglesi belgi… Nel loro rifiuto di quella che noi abbiamo chiamato integrazione, e non era niente, è la prova che siamo già sconfitti. Il vulcano siriano non è la causa, è solo lo strumento. Portano questi ragazzi europei (e come non chiamarli così?) la propria morte come un feto. Qualcuno sta già lavorando per farli tornare. Per scagliarceli contro.
«Mi hanno addestrato a fare la guerra, - mi osservava con una indefinibile espressione - so smontare un kalashnikov e rimontarlo a occhi chiusi, al buio, so maneggiare un lanciagranate... Ne arriveranno altri come noi, tanti. Uno degli impegni che prendiamo arruolandoci è quello di convincere i nostri amici, in Francia, a imitarci. E’ facile con Internet!».
Quello che mi colpì è come raccontavano di qualcuno di loro che era stato ucciso, la parole non esprimevano emozione. Eppure sapevano che i loro capi li usavano come carne da cannone. Si sceglie, si combatte, gli amici muoiono, moriamo noi stessi. Che cosa vuol dire per noi esser pronti a morire quando la morte è ancora lontana? E invece là, in Siria, per loro… la morte si fa di colpo presente, chiede il suo pedaggio, ha bisogno anche del loro sangue. Guardano le vite come se stessero dall’altra parte.
Sono vittime di chi ha montato un lercio ingranaggio dell’odio. Abu Bakr Al Baghdadi, l’emiro dell’Esercito del levante, vuole diventare il capo di quella che noi continuiamo a chiamare Al Qaeda e che è il «Jihad globale». Per soppiantare il declinante Al Zawahiri monterà un undici settembre europeo. I musulmani del vecchio continente, azzannati dalla crisi economica e dal montare delle xenofobie, sono le sue reclute perfette; non più gli untorelli di Bin Laden ma sperimentati combattenti. Il Jihadistan nell’Est della Siria è più pericoloso del remoto Afghanistan talebano: perché è a due passi da noi. E quei ragazzi torneranno.
Domenico Quirico, La Stampa 3/6/2014