Mimmo Candito, La Stampa 3/6/2014, 3 giugno 2014
HA TRAGHETTATO MADRID DA FRANCO ALLA DEMOCRAZIA MA NON HA RETTO GLI SCANDALI
Come sono amari gli anni che passano, quando la Storia ti fila via dalle mani che quasi non te ne avvedi. E come amaro era vederlo ieri, lui, il re che già non era più re, la voce impastata, la pappagorgia pesante, quando alle 13 l’intera Spagna si è fermata per guardarlo sui televisori accesi ovunque, che diceva «Adiòs» a un tempo che finiva per sempre; amaro perché quantum mutatus era questo signore anziano che se n’andava in pensione, l’abito grigio, incerto in poltrona, ora, rispetto a quel giovanotto che invece trent’anni fa, e però era sempre lui, ma allora in piedi, fiero e fermo, l’alta uniforme scura di medaglie e di coccarde da Capitan General, diceva «Viva la Constituciòn», pure quella volta dentro il televisore di ogni casa spagnola, insonni tutti anche se era quasi l’alba, e non si sapeva ancora se il nuovo giorno sarebbe stato ancora una volta il passato che tornava oppure finalmente, e per sempre, il futuro che chiudeva le porte della storia nazionale.
In questi due messaggi a «los pueblos de Espana» - l’uno, ieri, poco dopo il mezzodì di un giorno caldo di sole chiaro, e l’altro trent’anni fa, il 23 febbraio dell’81, poco dopo la mezzanotte d’una sera che era stata gelida di freddo e di angoscia – in questi due messaggi televisivi sta racchiuso un intero mondo: la parabola di una monarchia, la vicenda di un uomo, il destino di un Paese.
«Todos al suelo, cono», aveva urlato quello sconosciuto colonnello irrompendo nell’aula del Parlamento. Tutti a terra, cazzo! E aveva sparato due colpi di pistola in aria, per dire che lui faceva sul serio. Era un 23-F, un 23 febbraio, di tanto tempo fa, e la democrazia nata dal franchismo si trovò all’improvviso a ballare un bolero che più triste non poteva essere. Quel Tejero lì, i baffi d’ordinanza, il tricorno di cartone nero della Guardia Civil, il petto in fuori di chi vuole scrivere la Storia, era l’ultimo sussulto della dittatura che per quarant’anni aveva diviso in due la Spagna eterna. La Divisione Brunete si era sollevata e aveva portato in strada i suoi carri armati, da ogni regione del Paese il golpe militare pareva cancellare quanto si era eppure fatto per seppellire il passato. E soltanto lui, Juan Carlos, il re nato dal franchismo, poteva ora decidere chi avrebbe vinto.
L’eredità gli era stata consegnata dallo stesso Francisco Franco, nel tardo mattino del primo ottobre del ’75, con un abbraccio che, dal balcone del Palacio de Oriente, siglava il passaggio dei poteri davanti a una folla osannante che sventolava in aria i fazzoletti bianchi. «È l’abbraccio della morte», dicemmo in tanti ch’eravamo venuti a Madrid a vedere un importante pezzo di storia d’Europa che finiva; e in un’intervista perigliosamente clandestina che mi diede, qualche notte dopo, nel silenzio immobile di una anonima casa di periferia, Santiago Carrillo, segretario del partito comunista, l’uomo più odiato e più ricercato del regime, il vecchio «companero» ora senza la parrucca che gli proteggeva la clandestinità mi disse con disprezzo: «Passerà alla storia come Juan Carlos il Breve».
Come ci sbagliavamo. Quando il cardinale Tarancón, appena pochi giorni dopo la morte di Franco, il 20 novembre, incoronandolo nella cattedrale de los Jeronimos gli aveva chiesto di essere «il re di tutti gli spagnoli», si doveva capire che, forse, davvero il disegno della storia sarebbe stato diverso. Sul letto di morte, il Caudillo aveva detto, rassicurante, che lasciava il Paese «atado y bien atado», che tutto era sotto controllo, insomma; e invece ecco che, prima il vecchio cardinale, e poi il Richelieu più ascoltato, Torcuato Fernàndez de Miranda, stavano sussurrando al re appena intronato ben altra storia: che si doveva cambiare, «con juicio», certo, ma comunque cambiare. E arrivò la nomina di un giovane outsider, Adolfo Suárez, a capo del governo, con lo sconcerto dell’impalcatura del vecchio regime, poi la legalizzazione dei partiti e non più soltanto l’eterna Falange, poi ancora la nuova Costituzione e, addirittura, perfino la legittimazione del partito comunista. Quello che era stato immaginato «atado» scioglieva, libero, i suoi lacci consunti. L’approdo alla modernità lo aveva pilotato il re di Franco.
Qualcuno disse, in quegli anni della Transiciòn, che però il messaggio televisivo di Juan Carlos, quel 23-F, aveva tardato molto a essere letto al Paese, e che, forse, il giovane re aveva tentennato troppo, per decidere tra il franchismo e la democrazia. Gli risposero che i tempi del richiamo del re ai vari Comandanti territoriali erano stati inevitabilmente lunghi, ma che Juan Carlos aveva registrato il suo messaggio televisivo già prima di sera, facendo una chiara scelta di campo anche se la situazione era ancora inquieta e incerta. Conta poco, comunque, perchè ciò che resta nella Storia è un re che, nato dalla dittatura, ha portato il suo paese alla democrazia piena di tutti questi anni di monarchia.
Re costituzionale mai dubbioso del proprio ruolo storico, ha rispettato doverosamente il gioco parlamentare, e consegna oggi la Spagna e il principe Felipe ai tempi nuovi d’una democrazia che deve sapersi misurare con le sfide del futuro. Certo, nel privato ne ha fatte di cotte e di crude, è stato uno scavezzacollo sempre dietro gonne al vento, un «mujeriégo» impenitente come dicono a Madrid; ma alla fine sono fatti suoi, e poco del Paese, anche se hanno contribuito a deteriorare l’immagine della monarchia, insieme con gli scandali finanziari che hanno agganciato suo genero e la infanta Cristina. Sono storie di oggi, un re che se ne va sa bene che peseranno nel bilancio finale che lo accompagnerà; il 60% degli spagnoli sono nati dopo le pistolettate di Tejero, e sanno poco di quel «Todos al suelo, cono» ma sanno tutto dei traffici amorosi di Juan Carlos e dei traffici incerti della sua famiglia. Per questo bisognerà ricordare quel 23-F, anche se la memoria cancella via la Storia. Oggi, nel Parlamento, il soffitto porta ancora lo sfregio delle due pallottole sparate da Tejero.
Mimmo Candito, La Stampa 3/6/2014