Maurizio Crosetti, la Repubblica 3/6/2014, 3 giugno 2014
LA FUGA DI BURRUCHAGA QUELL’ULTIMA FIRMA CON LA REGIA DI DIEGO
[La Storia/Un gol, un Mondiale 1986] –
Diego è quasi voltato ma lo vede lo stesso e poi lo lancia, perché Diego è un gatto e come un gatto sente. Molto più avanti, il venerabile Jorge Burruchaga, la maglia numero 7, sta già correndo sul suo binario: nessuno lo fermerà mai. Si porta avanti la palla col sinistro, due volte, prima della puntonata di destro.
Finisce così, con il gol del 3-2, il mondiale di Messico ’86. L’Argentina era in vantaggio di due reti, la Germania la raggiunse nel finale. «Pensai a una punizione tremenda, qualcosa di mistico», ricorderà Valdano, autore del raddoppio. «Eravamo a centrocampo per la ripresa del gioco: io, Maradona e Burruchaga. Loro due, tranquillissimi. Siamo più forti, vinciamo di sicuro, dicevano». E così andò.
Allo stadio Azteca si usò per la prima volta un pallone parzialmente sintetico, la mascotte era un peperoncino di nome Pique. Il Messico, squassato dal terremoto di un anno prima (10 mila morti, due miliardi di dollari per la ricostruzione), prese il posto della Colombia che non garantiva alla Fifa i requisiti necessari per organizzare la Coppa. L’Italia campione del mondo era una squadra ormai vecchia, Bearzot aveva chiamato per riconoscenza dieci reduci dell’82, troppi: ci mandò a casa Platini, negli ottavi.
Fu il mondiale di Maradona, della sua totale pienezza di giocatore meraviglioso. Attorno gli giostrava una squadra normale, anche Burruchaga in fondo lo era, con qualche guizzo di Valdano e molto mestiere grezzo (Cuciuffo, Ruggeri, Olarticoechea), ma Diego era al massimo grado della sua storia, dunque della storia del calcio. Abbiamo scelto il gol di Burruchaga perché definitivo, senza ovviamente dimenticare i due che Maradona segnò nei quarti agli inglesi, uno con il pugno (la famosa mano di Dio), l’altro dopo quell’attraversamento totale del campo, “il gol del secolo”. Diego non si pentì mai di avere frodato l’Inghilterra, anche se fu in qualche modo costretto a realizzare poi un capolavoro compensativo, indulgenza plenaria per ogni peccato. La buttò anche in politica per la questione della guerra e delle Malvinas: «Chi ruba a un ladrone ha cent’anni di perdono».
La finale del 29 giugno, calcio d’inizio a mezzogiorno, 115 mila spettatori, fu lenta, estenuante ma non certo banale. Argentina in vantaggio con Brown, centrale difensivo, dopo 23’, per colpa del portiere Schumacher che va per mariposas, per farfalle, come dissero i telecronisti. Raddoppio al 55’ di Valdano, migliore penna di sempre tra tutti gli ex giocatori di pallone, ma nel finale la Germania segna due volte in nove minuti con Rummenigge e Voeller.
Le immagini di quel giorno mostrano un Beckenbauer, citì tedesco, quasi giovane, il naso enorme di Bilardo, l’allenatore biancoceleste che correndo al gol di “Burru” quasi perde le braghe, e tutto sembra sfumato in una lontananza estrema, i colori sbiaditi, il tempo precipitato all’indietro in un modo da non credere. Oggi, il venerabile Jorge è un allenatore di piccole squadre, un signore di 52 anni pieno di ricordi e della serenità di allora, spiegata da un sorriso assai dolce. «Il primo compagno che mi venne incontro dopo il gol fu Batista, il numero 2, con quella sua gran barba scura. Lo fissai. Mi parve di vedere Gesù».
Maurizio Crosetti, la Repubblica 3/6/2014