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 2014  giugno 03 Martedì calendario

LA PARABOLA DEL MONARCA AMATO BRUCIATO DA SCANDALI E CAPRICCI


Non è malato re Juan Carlos, ha preso atto di una deriva politica che stava rischiando di mettere in difficoltà — come sottolineano dalla Casa reale — l’istituzione che ha rappresentato per quarant’anni. Ora, responsabilità e generosità sono i due concetti che si rincorrono per definire un gesto che, in fondo, ha sorpreso tutti. Ma che, adesso che si è consumato, regala anche, ai più, un sospiro di sollievo. Si volta pagina ma nella continuità dopo mesi — gli ultimi — molto difficili e molto polemici per un sovrano che conquistò l’affetto e la stima di un popolo traghettando la Spagna alla democrazia e difendendola con fermezza quella notte — era il 23 febbraio del 1981 — in cui tremò. Responsabilità per il paese e per una istituzione in crisi; generosità verso il figlio, l’erede che rischiava d’invecchiare, come altri rampolli reali, nell’attesa di un giorno che non arrivava mai. Juan Carlos l’ha sempre detto e saputo: in quest’epoca si può stare sul trono finché si è utili alla causa. Quando si diventa un problema, un impiccio, quasi una seccatura, è un rischio per il paese. È lui lo stava diventando un problema, nonostante tutto. La lunga crisi spagnola, il suo crollo di popolarità, la vecchiaia, le malattie, lo scandalo del genero e della figlia, e tanti altri capricci che i suoi sudditi non gli perdonavano più.
Tutto è cominciato con una foto che in altri tempi sarebbe passata innocua al vaglio dell’opinione pubblica. Lo ritraeva con un fucile al braccio davanti ad un elefante ucciso, in Botswana, durante un safari. Uno dei tanti. Cadde, quella foto, nel momento peggiore per la Spagna con migliaia di persone licenziate, fabbriche in crisi, giovani senza lavoro, sforbiciate ai bilanci. Poi arrivò Iñaki, quel genero discolo, che insieme a sua figlia Cristina, ha approfittato del blasone reale per rastrellare denaro pubblico in cambio di iniziative discutibili, e spesso inventate; ha frodato il fisco, e sventolato la persuasione più fastidiosa del potere: quella del senso d’impunità.
Il giudice di Palma di Maiorca che ha istruito la causa deve decidere proprio in questi giorni se rinviare a processo anche l’Infanta. E non si può escludere che la convinzione dell’inevitabilità del coinvolgimento di Cristina nel giudizio sia stato il detonatore dell’abdicazione. Ma forse lo scandalo più imbarazzante, quello che mezzo paese non riesce a giustificare, riguarda la sua vita da infedele. Quella raccontata da Pilar Eyre nella biografia di Sofia, regina triste, sola e ingannata. Regina che, oggi in Spagna, tutti ringraziano per aver sempre anteposto i suoi doveri reali all’amarezza della sua vita personale. Mai uno scandalo. Mai una parola fuori luogo. Nulla che lasciasse intuire l’avvilimento per le ormai più che note avventure extraconiugali del marito.
Negli ultimi mesi, dopo una fastidiosa operazione all’anca che lo aveva costretto a letto per un po’, Juan Carlos aveva ripreso a viaggiare lanciando una campagna per convincere emiri e sceicchi arabi ad investire nel suo paese. Era tornato al centro della scena con l’intenzione di veder risalire la popolarità perduta. Aveva persino chiuso l’ultima love story, quella con Corinna, la più chiacchierata sui giornali tra le sue amanti. Ma senza grandi successi. Suo figlio andava sempre più su. Lui sempre più giù. Al massimo pareggiava con se stesso. Alla fine ne ha preso atto.
Sovrano nato a Roma, in esilio, settantasei anni fa, chiamato dal dittatore Francisco Franco per dare continuità al regime dei vittoriosi della Guerra Civile, aveva riconsegnato la Spagna e gli spagnoli all’Europa, alla libertà, alla democrazia. Da noi divenne amatissimo per quel pomeriggio abbracciato a Sandro Pertini mentre la Nazionale di Bearzot vinceva i Mondiali al Santiago Bernabeu battendo la Germania. Poi venne la nuova Spagna della movida, la Spagna dei socialisti, la Spagna che diventava, a tappe forzate, moderna, interessante, cool, di moda. All’improvviso anche lui ha fatto il suo tempo, ma ha avuto l’acume di prenderne atto dopo aver convinto tutti che non l’avrebbe fatto, che, piuttosto, «sarebbe morto con la corona in testa».

Omero Ciai, la Repubblica 3/6/2014