Federico Fubini, la Repubblica 3/6/2014, 3 giugno 2014
IL DEBITO CHE FA PAURA AL FONDO MONETARIO
Sul tavolo del consiglio del Fmi è appena atterrata una proposta direttamente figlia dell’eurocrisi. L’idea di base è che un Paese ad alto debito deve smettere di pagare agli investitori le cedole sui titoli di Stato, se riceve un prestito di salvataggio dal Fondo monetario internazionale.
Sarebbe una forma di sacrificio imposto ai creditori privati, in cambio dell’aiuto di un organismo pubblico. L’intenzione è evitare una replica del 2010: allora le banche francesi e tedesche uscirono illese dalle macerie dei loro investimenti in Grecia perché i contribuenti europei e l’Fmi subentrarono, assumendosene i rischi. Ora la proposta dell’Fmi non riguarda l’Italia, eppure sono passati solo due anni e mezzo da quando Barack Obama e Angela Merkel cercarono di convincere il governo ad accettare un aiuto del Fondo: il debito pubblico viaggiava al 120% del Pil, quest’anno invece supererà il 135%. Naturalmente la situazione è migliore, perché i tassi d’interesse sono più che dimezzati. Il Paese conserva tutte le possibilità di ridurre il debito, come da livelli simili riuscì al Belgio dieci anni fa. Le privatizzazioni previste dal governo e la fine della recessione aiuteranno.
Eppure uno sguardo all’indietro dà la misura dei rischi che continua a correre il Paese, il quarto più grande debitore al mondo con un’esposizione da 2.100 miliardi di euro. Il governo di Mario Monti prevedeva che il debito quest’anno sarebbe sceso al 118% del Pil, invece sta continuando a salire oltre il 135%. Sembra un secolo, ma sono passati due anni. E la primavera scorsa il governo di Enrico Letta pensava che quest’anno il debito sarebbe sceso al 129%, invece è di 90 miliardi più alto. Dal 2007 ogni mese di aprile il Documento di economia e finanza prevede l’imminente stabilizzazione e il calo del debito. Poi il mese di marzo successivo la stima è puntualmente rivista.
Il bilancio di questa esperienza è davanti agli occhi di tutti: la strategia di contenimento del debito adottata dai governi recenti, incluso l’attuale, non basta più. Si basa sullo sviluppo di enormi avanzi primari, cioè su forti surplus di bilancio prima di pagare gli interessi sul debito. Gli ultimi anni hanno dimostrato che le manovre necessarie a produrre questi surplus non sono più socialmente sostenibili. Raggiunti i sei milioni di disoccupati, ufficiali o meno, il Paese rifiuta nelle urne sacrifici ancora più pesanti. Quest’anno il surplus primario italiano è il più alto d’Europa con la Germania, eppure è (rispettivamente) di 45 e 25 miliardi più basso di quello che Monti e Letta stimavano indispensabile a far scendere o anche solo bloccare il debito.
In questo Renzi non si distingue molto dai predecessori. Nei documenti, continua a indicare che ridurrà il debito grazie a un aumento dell’avanzo primario da oggi al 2018: in teoria dovrebbe farlo salire di una trentina di miliardi. Ma come per i predecessori i suoi piani già in partenza sono in dubbio. Non c’è solo il fatto che le scelte concrete del premier non stanno andando nel senso di una nuova stretta sui conti, semmai il contrario. Soprattutto, quella di Renzi sarebbe un’eccezione: dal 1945 l’Italia ha raggiunto quei livelli altissimi di surplus primario solo per pochi anni al cambio di secolo, in una fase di crescita e occupazione molto migliore di questa.
I fattori che fanno salire il debito rispetto al Pil sono due. Pesa il deficit prodotto dagli 82 miliardi che ogni anno il Tesoro paga in interessi sul debito stesso. E incide il fatto che la dimensione dell’economia misurata in euro — cioè crescita più inflazione — sale pochissimo.
Gli interessi sul debito sono sempre superiori alla somma di crescita e inflazione, dunque il debito stesso non fa che aumentare rispetto al Pil.
Si tratta di invertire quell’equazione grazie alla crescita. Laurence Boone di Bank of America-Merrill Lynch calcola che, se l’inflazione resta così bassa, il debito italiano sarà vicino al 150% nel 2017. E scrive Ashoka Mody, un professore di Princeton ex vice-capoeconomista del Fmi. «Ignoriamo l’Italia a nostro rischio e pericolo». Mody si chiede: «Le autorità stanno consultando un bravo avvocato per la ristrutturazione del debito?». Oggi l’Italia non è costretta a farlo, né vi ha interesse. Ristrutturare, cioè non onorare il debito nei termini promessi, sarebbe un evitabilissimo disastro. Impoverirebbe le famiglie, che hanno titoli di Stato per 180 miliardi. Devasterebbe il settore finanziario del Paese, perché banche e assicurazioni sono esposte per oltre 600 miliardi. Aprirebbe un buco nei fondi pensioni professionali. E produrrebbe tassi d’interesse ancora più alti.
Renzi conosce i rischi. Di recente, nel rispetto dell’indipendenza dei ruoli, il premier ha aperto un canale di comunicazione con il presidente della Bce Mario Draghi. La Banca centrale europea può aiutare: se riesce a muovere con forza per far risalire l’inflazione da zero verso il 2% e l’Italia riparte, la dinamica del debito si può invertire dal 2015. Draghi sa che non tocca a lui spiegare al governo italiano il da farsi. Ma sa anche che sarà più facile per lui proporre verso fine 2014 un programma aggressivo per far risalire l’inflazione, con interventi sul mercato, se l’Italia non è un osservato speciale in Europa: molti, strumentalmente, lo accuserebbero di voler agire solo per togliere il proprio Paese dai guai. Anche per questo il governo ha bisogno di mantenere il controllo sui conti e introdurre misure efficaci per rimettere il Paese in condizioni di competere sui mercati esteri. La posta in gioco è più alta di un bonus da 80 euro.
Federico Fubini, la Repubblica 3/6/2014