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 2014  giugno 02 Lunedì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI DEL 2 GIUGNO 2014

Cento giorni fa, il 22 febbraio 2014, Matteo Renzi è salito al primo piano di Palazzo Chigi da presidente del Consiglio dopo essere stato formalmente nominato dal Capo dello Stato e aver giurato fedeltà alla Repubblica. Tre giorni dopo il suo governo ha ottenuto la fiducia del Parlamento. «In quel momento è iniziata ufficialmente la Spericolata Era Renzi, una stagione politica costantemente in bilico tra una rivoluzione riformatrice e un’avventura velleitaria» (Christian Rocca) [1].

Alessandro Campi: «La parlantina sciolta che avvolge e disorienta l’interlocutore, l’autostima forse esagerata, l’ostinazione e il coraggio che ha sempre mostrato nei momenti decisivi, il piglio volitivo e decisionistico, l’argento vivo e la perenne agitazione, una sfrontatezza compensata da un viso da bravo ragazzo un filo evidente di narcisismo e un po’ della prosopopea che i fiorentini hanno da secoli. Eppure resta la domanda su chi sia per davvero Matteo Renzi» [2].

Matteo Renzi, nato l’11 gennaio 1975 a Firenze e cresciuto a Rignano sull’Arno, 9 mila abitanti, 23 chilometri da Piazza della Signoria. Figlio di Laura Bovoli e Tiziano Renzi [3].

Tiziano Renzi, già consigliere comunale della Dc, tuttora segretario del circolo Pd di Rignano: «Mi rendo conto che a volte con la mia attività politica per lui sono ingombrante, però anch’io devo poter continuare a fare il mio, no?» [4].

Tre fratelli, due femmine e un maschio. La più grande è Benedetta, 42 anni, che vive a Castenaso, vicino Bologna. La più piccola è Matilde, 30 anni, l’unica che vive a Rignano sull’Arno, vicino ai genitori. Samuele, 31 anni, laureato in Medicina, fa il pediatra in Svizzera [5].

Famiglia molto cattolica appartenente, tutti tranne Samuele (neocatecumenale), al Rinnovamento dello Spirito Santo, movimento ecclesiale che parte dall’esperienza di una nuova effusione dello Spirito Santo. Matteo Renzi e la moglie Agnese Landini praticano esercizi spirituali dal padre gesuita don Enrico Deidda [5].
Al liceo lo chiamavano il Bomba, «perché le sparava grosse» (Aldo Cazzullo) [3].

La prima sconfitta della sua vita al Liceo classico Dante di Firenze, come rappresentante studentesco. La lista capeggiata da Leonardo Bieber, “Carpe Diem”, supera la sua, dal nome “Al buio meglio accendere una luce che maledire l’oscurità” [4].

I compagni di scuola lo ricordano parecchio intransigente: «Li rintronava di discorsi sulla Dc e sul sesso prematrimoniale, cui era ovviamente contrarissimo. “Era un vero bigotto”. E per farvi capire che opinione avessero di lui, sul primo numero de Il Divino Mensile (il giornalino scolastico) si vede un Renzi vestito da cardinale nell’atto di dar fuoco a una signorina in abiti discinti. Sotto, la scritta “Renzquemada”» (David Allegranti) [6].

Gioca stopper nella Rignanese, ma riesce meglio come arbitro (l’anno scorso, in una partita di beneficenza, ha preteso di tirare un rigore: parato, dal sottosegretario Toccafondi, alfaniano). Cazzullo: «Si fa eleggere rappresentante di classe. Entra negli scout. Guida un gruppo in una gita in Garfagnana: si perdono in un bosco, passano la notte all’addiaccio. I compagni lo chiamano “Mat-teoria”, perché parla parla ma poi a lavorare sono sempre gli altri. Il capo scout Roberto Cociancich scrive: “Matteo ha doti di leader. Lo vedremo crescere”. Oggi Cociancich è senatore del Pd, inserito nel listino in quota Renzi» [3].

Dopo il diploma, nel 1993 comincia a lavorare alla Chil, l’azienda di famiglia che si occupa di marketing e distribuzione di giornali. «Il Matteo Renzi che chiama per nome i ministri e i membri della sua segreteria del Pd non è tanto diverso da quello che chiamava per nome i suoi strilloni all’appuntamento quotidiano davanti al garage Europa di Borgo Ognissanti a Firenze. Qui ogni mattina alle sei un giovanissimo Renzi arrivava con il suo furgone da Rignano sull’Arno e consegnava ai suoi dipendenti i pacchi dei giornali e le news per la giornata» (Marco Lillo) [7].

Oggi la società di famiglia si chiama Eventi6. Renzi è stato un dirigente in aspettativa dal giugno 2004 a pochi giorni fa, quando si è dimesso. Era stato assunto, dopo anni di co.co.pro. il giorno prima della sua candidatura a presidente della Provincia, il 27 ottobre del 2003. Con la crisi dei giornali la Eventi6 ha diversificato distribuendo oltre ai quotidiani (come le free press Leggo e Metro) anche le Pagine Gialle e i volantini dei supermercati Esselunga [7].

Del 1994 la prima apparizione tv, a La Ruota della Fortuna di Mike Bongiorno. Cinque puntate, 48 milioni di lire in gettoni d’oro. Alto, allampanato, occhialoni, aria da secchione. Dice di lui Mike: «È un campione, non sbaglia» [4].

«Quando entra in politica la Dc non c’è più. S’affaccia ai Popolari, quelli nati dalla disintegrazione della Balena bianca per via giudiziaria. Del partitone in cui aveva militato babbo Tiziano, i Popolari non hanno neppure più lo Scudo crociato, che s’è preso il Cdu di Rocco Buttiglione dopo la scissione del Ppi martinazzoliano, ucciso dal maggioritario. Al suo posto c’è uno stendardo, vaghe parole d’ordine cattodemocratiche e percentuali di votanti a una cifra sola» (Goffredo Pistelli) [8].

A ventiquattro anni si laurea in Giurisprudenza con una tesi su «Giorgio La Pira sindaco di Firenze» (con 109, mancò il 110 perché durante la discussione litigò con il relatore). «Parlotta l’inglese con l’accento toscano, ma non ha fatto master all’estero» (Cazzullo) [3].

Dal 27 agosto 1999 è sposato con Agnese Landini, trentasette anni, insegnante di Lettere del liceo (ora in aspettativa), conosciuta agli esercizi spirituali nell’Agesci. Tre figli: Francesco, Emanuele ed Ester [3].

Abita tredici chilometri fuori Firenze, a Pontassieve, in una villetta con giardino comprata nel 2005 con mutuo trentennale da 387 mila euro [9].

Diventa segretario provinciale del Partito Popolare nel 1999, due anni dopo è coordinatore della Margherita a Firenze (area rutelliana). Nel 2002 è segretario provinciale, nel 2004 presidente della Provincia di Firenze. Ha 29 anni.

Pestelli: «Con le buone, ché sa anche negoziare, e con le cattive, ché se s’arrabbia sa essere spiacevole, il più giovane presidente provinciale d’Italia si fa approvare un bel piano per promuovere il territorio a livello culturale e turistico. E ti sforna il Genio fiorentino, un cartellone di eventi e manifestazioni cui non manca mai. Un taglio di nastro via l’altro, una vernice via l’altra, interviene, parla, fa. Costruisce giorno dopo giorno un’immagine che esce dalle quattro mura dell’autoreferenzialità fiorentina, si muove come un frullino nella sonnacchiosa politica del capoluogo, che a Roma è abituato a contare poco e quel poco sempre obbedientemente nella catena di comando dell’ex-Pci» [8].

La Corte dei Conti che ha scandagliato i conti della Provincia negli anni in cui era presieduta da Renzi e nell’estate del 2011 ha condannato in primo grado l’attuale premier: «La procura contabile aveva contestato alla ex giunta provinciale, quindi al presidente Renzi e ai suoi assessori, un danno erariale di 2 milioni e 155 mila euro per quattro assunzioni effettuate senza seguire l’iter previsto. Il sindaco bollò la ricostruzione della Corte “fantasiosa e originale”. La vicenda si è conclusa con una condanna ridotta in fase di giudizio a 14 mila euro. Ma sui conti della Provincia c’è un’altra inchiesta aperta sempre dalla Corte dei Conti insieme alla Guardia di Finanza su incarico del ministero del Tesoro in merito a 20 milioni spesi nel periodo compreso tra il 2004 e il 2009. Viaggi, aragoste, spese varie. Ma anche sponsorizzazioni particolari, tipo quella del 2005: Renzi stanzia 100 mila euro per fare “il compleanno alla Pimpa”. Il fumetto» (Wanda Marra e Davide Vecchi) [4].

Alla Provincia il suo capo segreteria è Marco Carrai, «l’“uomo nero”, il suo “Gianni Letta” (copyright David Allegranti). È Carrai ancora oggi che cura i rapporti con la grande finanza, a cominciare da Davide Serra. È lui che gestisce le operazioni più discutibili. Matteo lo piazzerà via via nei posti che contano: Ad di Firenze Parcheggi, nel Cda dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze e del Gabinetto Vieusseux, presidente di Aeroporti Firenze» (Duccio Tronci in Chi comanda Firenze, Castelvecchi, 2013) [10].

Il primo a invitarlo in una trasmissione politica è Corrado Formigli su Sky nel 2006. «Fa gaffe e le racconta, confonde Churchill con De Gaulle e ne ride. Nel 2006 passa in città Berlusconi. Ai suoi uomini confida: “Quel Matteo è bravo, ma sbaglia a vestirsi di marrone: fa tanto sinistra perdente”. Scrive Claudio Bozza del Corriere Fiorentino che qualcuno lo riferisce all’interessato. Il marrone è abolito» (Cazzullo) [3].

S’avvicina sempre più a Francesco Rutelli, «frequenta il suo giro romano quando è ministro della Cultura, gli va a preparare visite ufficiali in America. E non smette mai di intessere rapporti. In quell’occasione, siamo nel 2006, diventa amico dei Kennedy e con loro dei Marcucci, dell’editrice Marialina, già Videomusic e poi vicepresidente regionale coi Ds, ma soprattutto di Andrea, già deputato liberale e poi popolare. Scrive un libretto, Da De Gasperi agli U2, in cui comincia a chiarire il suo pensiero: un mix di cattolicesimo solidaristico con una forte carica innovatrice ma soprattutto una decisa rivendicazione generazionale» (Pistelli) [8].

«Se avesse seguito le regole tradizionali della politica, oggi sarebbe ancora al termine del suo secondo mandato da Presidente della Provincia di Firenze» (Rocca) [1].

Michele Brambilla: «Nel settembre del 2008 si mette in testa un’altra idea da matti, candidarsi alle primarie per il sindaco di Firenze. Tutti a dirgli Matteo sta’ bono, non fare il passo più lungo della tu’ gamba. Eppure vince, e vince contro uno favoritissimo, Lapo Pistelli, deputato e responsabile nazionale Esteri del partito. Ancora una volta aveva ragione lui, il giovane Matteo, che naturalmente poi l’anno dopo sbanca le elezioni comunali e diventa sindaco di Firenze» [11].

Sulla sua elezione a sindaco dirà poi: «Non ho vinto io perché ero un ganzo, è che gli altri erano fave» [3].

«È sindaco solo da un anno quando comincia la scalata nazionale. A suon di eventi mutuati dal modello scout, promesse di cambiamento, slogan. E format di tipo televisivo. È un format la campagna per le primarie 2012: un’ora con video, slide e battute. Quanto di più lontano da un comizio. È un format la Leopolda. Un grande spettacolo, a sfondo partecipativo (5 minuti per ciascuno), video, colonna sonora assordante, vissuti in parallelo su Facebook e Twitter, fedele all’immagine che vuole Renzi tutt’uno col suo smartphone, pronto a digitare, annunciare, rispondere. La prima edizione è del 2010» (Vecchi) [4].

La parola “rottamazione” la pronuncia per la prima volta nell’agosto 2010, quando in un’intervista a Umberto Rosso di Repubblica attacca i dirigenti del Pd: «Se vogliamo sbarazzarci di nonno Silvio dobbiamo liberarci di un’intera generazione di dirigenti del mio partito. Non faccio distinzioni tra D’Alema, Veltroni, Bersani... Basta. È il momento della rottamazione. Senza incentivi. […] Ma li vedete? Berlusconi ha fallito e noi stiamo a giocare ancora con le formule, le alchimie delle alleanze: un cerchio, due cerchi, nuovo Ulivo, vecchio Ulivo... I nostri iscritti, i simpatizzanti, i tanti delusi che aspetterebbero solo una parola chiara per tornare a impegnarsi, assistono sgomenti a un imbarazzante Truman show» [12].

Si candida alle primarie del centrosinistra del 2012. Perde al ballottaggio con Bersani: lui prende il 39,1%, Bersani il 60,9. «Fu quella domenica sera in cui perse il ballottaggio che Renzi preparò la sua rivincita. Arrivò alla Fortezza da Basso, a Firenze, guidando la sua station wagon – niente autisti e niente scorte – con la moglie Agnese a fianco e il rosario sullo specchietto. Pronunciò un formidabile discorso in cui disse soprattutto una cosa: ho perso. In un Paese dove alle elezioni non perde mai nessuno, Renzi si mostrò, forse più che mai, diverso. E lì cominciò la sua rimonta» (Brambilla) [11].

Nel novembre 2012 Sara Faillaci gli chiese se non avesse mai pensato di uscire dal Pd. «Mai. I sondaggi dicono che, correndo da solo, se mi va male ho il 12 per cento, se mi va bene posso arrivare al 23. Significa che alla peggio ho 80 parlamentari, ma che ci faccio? Io non voglio un posto al sole e la mia fettina di potere: diventerei come tutti gli altri. O mi danno la possibilità di cambiare il Paese o rimango a cambiare Firenze» [13].

A fine 2012, per Matteo Renzi i giochi sembrano rimandati a chissà quando. «E invece si riaprono del tutto inaspettatamente dopo solo pochissimi mesi. Accade infatti che il Pd bersaniano “non vince”, cioè perde clamorosamente, le elezioni politiche. E le perde proprio perché una parte dei suoi elettori reali o potenziali si fa attrarre dal Movimento 5 Stelle. È proprio il successo di Grillo nei confronti del Pd, comunque, il fatto cruciale che rimette in gioco Renzi. Il quale solo a quel successo, non ad altro, deve se nel giro di pochissimo diventa l’unica speranza della stragrande maggioranza del popolo progressista (e non solo)» (Ernesto Galli Della Loggia) [14].

Rapporti freddissimi con Enrico Letta premier, finché non ne ha preso il posto. «Durante l’estate 2013 comincia la marcia: il sindaco decide – lo annuncerà più avanti – di candidarsi alla segreteria e inizia a costruire attorno a sé una rete di contatti extra politici. E così, il 13 luglio, dà il là al suo tour da presidente del Consiglio ombra: arriva l’incontro con Merkel, arrivano i contatti con i poteri che contano. I mesi passano, Renzi si convince che per togliere di mezzo il governo sarebbe stato necessario votare con il Porcellum ma poi si arriva al 5 dicembre del 2013 e cambia tutto: la Consulta dichiara il Porcellum incostituzionale e per la prima volta Renzi confessa a un suo collaboratore a Palazzo Vecchio che il piano B è quello: se non si riesce a fare la legge elettorale si rottama Enrico e si va a Palazzo Chigi. Detto, fatto» (Claudio Cerasa) [15].

Non esiste una sola foto in cui Letta e Renzi si stringano la mano guardandosi negli occhi [15].

Memorabile la scena del passaggio della campanella, il 22 febbraio scorso, in occasione del passaggio di consegne tra Letta e Renzi. Filippo Ceccarelli: «Più che un video, una visione di muta baldanza e di conclamato rosicamento. Sono appena venti secondi. Letta non solo guarda basso, ma si tiene la mano destra sullo stomaco. È nero, ha fretta e senza tante storie, con sequenza accelerata da vecchie comiche, afferra quell’affaretto dal vassoio e – tie’! – quasi lo sbatte nelle mani di Renzi. Che l’accoglie con un sorriso forzato e la naturale diffidenza di chi riceve in dono un topo morto. Resta appena il tempo per una foto imbronciata, rigido l’uno, goffo l’altro; poi la stretta di mano, saggio di gelida ostilità» [16].

È il primo ministro più giovane nella storia d’Italia. Sergio Romano: «Per l’esattezza Benito Mussolini, quando divenne presidente del Consiglio nell’ottobre 1922, aveva 39 anni e tre mesi mentre Renzi 39 e poco più di due mesi. Il record continentale, comunque, è di William Pitt che divenne Primo ministro di Gran Bretagna nel 1783 all’età di 24 anni» [17].

La stanza di Renzi a Palazzo Chigi, primo piano, affaccio sul cortile, è la stessa di Letta. Unica modifica rispetto allo studiolo usato dall’ex premier è il quadro in bianco e nero di Giorgio La Pira poggiato all’ingresso della sala, su un comodino di legno, dove invece Letta aveva poggiato un acquerello raffigurante una Vespa regalatogli dal giornalista di La7 Andrea Pancani [18].

La partecipazione col giubbetto da Fonzie ad Amici, la copertina di Chi con le nonne. E poi la foto con Mandela postata su Facebook un attimo dopo la sua morte. I titoli dei suoi libri sono estratti perfetti della costruzione della sua immagine: Ma le giubbe rosse non uccisero Aldo Moro. La politica spiegata a mio fratello (scritto con Lapo Pistelli nel 2005), Tra De Gasperi e gli U2. I trentenni e il futuro (2006), A viso aperto (2008), Fuori (2011), Stilnovo (2012), Oltre la rottamazione (2013) [4].

Paolo Di Stefano: «A guardare bene il suo Pantheon, il rottamatore rottama pochissimo. Gli vanno bene la scompostezza di Briatore e il suo opposto, Alessandro Baricco, cui lo avvicina, tra l’altro, il look camicia bianca e maniche rimboccate stile stiamo-lavorando-per-voi. Gli vanno bene Eataly e la Coca-cola: local e global. Usa la Smart, ed è smart lui stesso (copyright Marco Belpoliti). Gli piace Virzì, ma non disprezza Pieraccioni, e non rinuncia alla battuta come Panariello, anche se Benigni-Pinocchio non è male… Renzi è il “ma anche” di Veltroni aggiornato agli anni 00» [19].

Ma avrà almeno un difetto? «Soffro di vertigini» [20].

«Passeggiare oggi a Palazzo Chigi significa incrociare addetti stampa preoccupati che ti raccontano quella volta che Renzi, Lotti e Bonifazi hanno cominciato a lanciarsi da una parte all’altra della Galleria Deti, al primo piano, a fianco all’ufficio di Renzi, il pallone da rugby donato al presidente del Consiglio dalla squadra rugby di Treviso (i commessi sono quasi svenuti). Significa incrociare assistenti di un ministro che ti raccontano quel pomeriggio in cui Renzi si è infilato nella stanza di Delrio (la vecchia stanza di Romano Prodi) per discutere della riforma della Pubblica amministrazione per poi uscirne un’ora dopo completamente pezzato e con un pallone da calcio sotto braccio che Delrio aveva messo da parte per i figli di Renzi e con cui il presidente del Consiglio aveva invece ingaggiato una sfida a “chi fa il fallo più pesante” con lo stesso Delrio» [18].

Fra le cose fatte dal governo Renzi finora: gli 80 euro in busta paga per i lavoratori dipendenti che guadagnano tra gli 8 e i 24 mila euro lordi all’anno; il taglio del 10% dell’Irap per le imprese; il tetto massimo di 240 mila euro alla retribuzione dei dirigenti pubblici [21].

Fra le cose annunciate e ancora non fatte: il Jobs act (contratto unico di inserimento, novità nei sussidi di disoccupazione, revisione delle norme, eccetera); riforma elettorale (l’Italicum è passato a Montecitorio ma è fermo al Senato); abolizione del Senato (anche questo fermo a Palazzo Madama); abolizione delle Province (ddl approvato a inizio aprile, ma le Province rimarranno al loro posto fino a quando arriverà la riforma costituzionale che le cancellerà dalla Carta) [21].

Con il 40,8% delle europee il Pd di Renzi ha preso più di 2 milioni in più rispetto a un anno fa con Bersani. Andrea Scanzi: «Il 2014 sta a Renzi come il 1994 a Berlusconi. Dominerà la scena politica per i prossimi vent’anni. Dire che “ha vinto per gli 80 euro” è un mantra consolatorio (?) per i 5 Stelle, ma significa poco ed è molto riduttivo. Renzi ha stravinto per una serie di fattori, compreso l’imbarazzante consenso mediatico di cui gode, ma il primo motivo è legato al suo saper incarnare un cambiamento morbido e garbato, prossimo al gattopardismo: al suo essere scaltro e rassicurante. Renzi ha poi un merito: laddove in Europa dominano le derive destrorse, l’Italia ha lui» [22].

Marco Damilano: «In appena sei mesi, una campagna d’Italia, Renzi ha conquistato il centro dell’elettorato italiano, da sindaco di Firenze a segretario del Pd a premier e leader di un partito votato da un italiano su quattro. Percentuali raggiunte in Italia solo dalla vecchia Democrazia italiana. Renzi rifiuta il paragone, ma del vecchio Scudocrociato intende ricalcare l’ossatura, la centralità, il blocco sociale, il ruolo nazionale, la capacità di essere il partito di tutti gli italiani. Forza Italia, in fondo, era stato l’ultimo slogan elettorale della Balena bianca prima di diventare il nome della creatura berlusconiana» [23].

«Se un punto di contatto vero tra questo presente e il passato democristiano esiste, sta nella vocazione maggioritaria che il Pd può finalmente provare a esercitare. La vocazione maggioritaria non è espressione renziana, ma veltroniana: tanti difetti, ma democristiano proprio no. Solo che alla fine, per tante ragioni e per le sue capacità di timing, coraggio e sfacciataggine, Renzi si trova in mano, appunto, un partito-tutto: un partito come era la Dc, per molti versi. In cui stavano, insieme, catto-comunisti, socialisti di base, conservatori liberali, conservatori di destra, protestanti, cattolici, bestemmiatori incalliti, e papisti oltranzisti» (Jacopo Tondelli) [24].

«A Tony Blair guarda come al modello a cui ispirarsi. E non ha torto. Blair ha fatto i conti con la vecchia sinistra laburista e le ha cambiato i connotati. Non solo: Blair ha vinto le elezioni quando è riuscito a catturare i voti che erano andati alla Thatcher nel decennio precedente. Proprio quello che Renzi si sta sforzando di fare in Italia» (Stefano Folli) [25].

Ha scritto Philippe Ridet su Le Monde: «Renzi sarà il salvagente della sinistra europea? Non sarebbe un paradosso da poco per qualcuno che è diventato presidente del consiglio senza essere stato eletto e che proviene dallo scoutismo, da Azione Cattolica e dai ranghi del Partito popolare italiano, un ramo della Democrazia cristiana. “Forse non sono di sinistra”, amava ripetere quando era sindaco di Firenze, “ma faccio cose di sinistra”» [26].

(a cura di Luca D’Ammando)

Note: [1] Christian Rocca, IL giugno; [2] Alessandro Campi, Il Mattino 15/2; [3] Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 16/2; [4] Wanda Marra e Davide Vecchi, il Fatto Quotidiano 8/12/2013; [5] Fabrizio Boschi, il Giornale 18/4; [6] David Allegranti, The Boy, Marsilio, 2014; [7] Marco Lillo, il Fatto Quotidiano 20/4; [8] Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 16/2; [9] Sara Frangini, il Fatto Quotidiano 8/11/2012; [10] Duccio Tronci, Chi comanda Firenze, Castelvecchi, 2013; [11] Michele Brambilla, La Stampa 14/2; [12] Umberto Rosso, la Repubblica 29/8/2010; [13] Sara Faillaci, Vanity Fair 21/11/2012; [14] Ernesto Galli della Loggia, Corriere della Sera 28/5; [15] Claudio Cerasa, Il Foglio 14/2; [16] Filippo Ceccarelli, la Repubblica 23/2; [17] Sergio Romano, Corriere della Sera 23/2; [18] Claudio Cerasa, IL giugno; [19] Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 23/2; [20] Paola Maraone, Gioia 11/10/2012; [21] Sofia Ventura, IL giugno; [22] Bacheca Facebook di Andrea Scanzi 26/5; [23] Marco Damilano, l’Espresso 30/5; [24] Jacopo Tondelli, Doppiozero.com 27/5; [25] Stefano Folli, IL giugno; [26] Philippe Ridet, Le Monde 27/5.