Viviana Mazza, Corriere della Sera 2/6/2014, 2 giugno 2014
MACERIE, NESPOLE E I SOPRAVVISSUTI A HOMS DOVE È MORTA LA RIVOLUZIONE
DALLA NOSTRA INVIATA HOMS — Con i suoi nespoli, le palme e i gelsomini il cortile del convento dei gesuiti offre un momentaneo rifugio dal sole, dalla polvere e dalla desolazione della Città Vecchia di Homs, un po’ come lo offrì il padrone di casa Padre Frans a molti, cristiani e musulmani, in questa guerra fratricida. Anche quest’ultimo quartiere della città un tempo nota come la «capitale della rivoluzione» è stato ripreso dal governo tre settimane fa e la gente sta tornando a casa nei quartieri soprattutto cristiani di Bustan Al Diwan, Al Malgaa e Al Hamidiyah. Ma al centro del cortile c’è una sedia vuota, con un ciuffo di fiori rosa di plastica appoggiati allo schienale. Proprio su quella sedia e in quel punto, è stato assassinato quasi due mesi fa Padre Frans Van Der Lugt. Il gesuita 76enne olandese era l’ultimo missionario europeo rimasto nella roccaforte dei ribelli negli oltre due anni in cui era stata assediata dai soldati lealisti di Assad. Non ha potuto vedere la fine dell’assedio. «Un giorno, un miliziano con il volto coperto è arrivato, lo ha fatto sedere su quella sedia e gli ha sparato alla testa». Lo racconta Nazim Qanawati, 50 anni, ingegnere civile. È uno dei 24 cristiani rimasti fino all’ultimo giorno, insieme a 200-500 civili musulmani e 2000 miliziani ribelli. Nemmeno a febbraio Padre Frans aveva voluto andarsene con gli ultimi civili evacuati, per non abbandonare i suoi fedeli. In quel cortile ora c’è la sua tomba. Nazim l’ha seppellito nel punto in cui amava prendere il caffè al mattino e ha disposto le pietre a forma di croce. Viene a trovarlo uno stuolo continuo di pellegrini incluse coppiette e scolaresche.
Homs, a due ore di auto a nord di Damasco sulla strada segnata dai carri armati, è oggi il simbolo della fine della rivoluzione. Nella piazza dell’Orologio che a lungo ha segnato una linea del fronte tra regime e ribelli, le lancette hanno ripreso a muoversi, ritmando il ritorno della gente alle case. Lo ha sancito un accordo ai primi di maggio: i combattenti hanno lasciato la zona negli autobus forniti dal governo e sotto supervisione dell’Onu verso i villaggi e le campagne a nord, verso la Turchia, dove ancora si combatte. In cambio hanno ceduto degli ostaggi sciiti e un accesso ai villaggi vicino ad Aleppo. In un cortile sporco e pieno di detriti, dove c’era una volta il ristorante Beit Al Agha, Elia Saman mostra il nascondiglio dell’emiro della brigata Abu Leil. Stava nello scantinato per evitare le bombe. «Era un uomo colto». Accanto agli strumenti per preparare bombe, tubi e sostante chimiche, e una foto pasticciata di Assad ci sono due pile di volumi di libri, non solo religiosi. Uno è sulla prevenzione delle malattie. «È fuggito a Al Waer, l’unico altro quartiere di Homs dove stanno ancora i ribelli e c’è una tregua e la speranza di un accordo. Ma l’emiro l’hanno ammazzato».
Un papà in bicicletta sfreccia con un bimbo in grembo tra le stradine su cui si affacciano le case sventrate. Sulla soglia di ciascuna ci sono cumuli di detriti. Tutte le chiese riportano danni insieme a recenti segni di affetto. Quella greca-cattolica, la Signora della Pace, è vuota, con la cupola crollata, un affresco annerito dal fuoco e le vetrate in frantumi: eppure le sedie sono in ordine davanti all’altare. Nella chiesa siro-ortodossa si celebra la messa della domenica, e il sacerdote comanda ai fedeli di andare in pace. Ad ogni angolo stanno appostati soldati in mimetica abbastanza tranquilli da posare per le foto. Agli angoli sventolano le bandiere delle milizie cristiane, in cui molti si sono arruolati per combattere contro gli estremisti musulmani. Bari, 21 anni, maronita, che aveva lasciato il quartiere nel 2012, racconta che lui, studente di matematica, non ha voluto combattere. Si sente più portato per la ricostruzione. Molti, come lui, hanno il sorriso sulle labbra ma Abu Rogé, un anziano con un fratello a Como, si trascina senza meta per Al Malgaa, vicino alla piazzetta dove una volta i ragazzi si riunivano la sera nei bar. «Forse sarebbe stato meglio non tornare, per non vedere queste cose», confessa con gli occhi arrossati.
Davanti alla tomba di Padre Frans, Nazim non mostra odio. «Quel gesto così atroce è stato compiuto per disperazione, per smuovere i negoziati con il governo. La vita qui era arrivata ad un punto cruciale, mancavano il cibo, l’acqua. Negli ultimi 50 giorni mangiavano le nespole di questo cortile, mischiandole al granturco. Il nocciolo lo ammorbidivamo nell’acqua: acquista un sapore simile ai funghi. L’assassinio di Padre Frans è diventata una storia di portata internazionale, una specie di luce che ha portato alla riconciliazione. Ce l’ha insegnato lui. Una volta i miliziani vennero a rubare del cibo. Padre Frans li denunciò ai loro capi che li misero in prigione. E allora lui andava a trovarli per assicurarsi che fossero rimessi in libertà e una volta rilasciati li invitò a pranzo».
La caduta o la liberazione di Homs non cancella la realtà di un Paese ancora in guerra. Nel nord, nella città spaccata di Aleppo, si combatte quella che è definita la battaglia decisiva. Con assedi e offensive con l’aiuto dell’Hezbollah, il regime ha ripreso il controllo di buona parte del territorio e sostiene che in pochi mesi può riportare la stabilità. Secondo uno studio pubblicato a maggio dal Brookings Institution, c’è l’opzione americana dell’appoggio alla ribellione da sud benché la Casa Bianca prometta ma continui ad esitare nel fornire nuove armi ai ribelli, tra ansie per i qaedisti e timori che il regime sospenda la distruzione delle armi chimiche.
Mentre molti ribelli hanno lamentato la grave perdita di Homs, il regime l’ha celebrata come una vittoria e può fregiarsene mentre si appresta a disputare domani nuove elezioni presidenziali destinate a riconfermare Bashar Assad per 7 anni e precedute da un lungo blackout che per tutto il giorno ieri ha impedito le telefonate all’estero e l’accesso a internet. Ma forse, in una guerra in cui entrambi i fronti hanno pensato poco alle vittime collaterali, va capito che la gente di Homs come della Siria è stanca. A Homs non ha vinto nessuno, ma il senso che il valore delle vite umane può prevalere sulle pistole offre un barlume di speranza in un conflitto su cui è presto per mettere la parola fine.