Enrico Franceschini, il Venerdì 30/5/2014, 30 maggio 2014
LA CATENA DEI SECESSIONISTI: LE ISOLE PICCOLE LASCIANO LA SCOZIA?
Londra. Tra qualche mese il Regno Unito rischia di disunirsi: il referendum indetto il prossimo 18 settembre potrebbe ridare l’indipendenza alla Scozia. Il più recente sondaggio dà i «no» ancora in vantaggio, 47 a 40 per cento, ma i «sì» aumentano di settimana in settimana (sei mesi fa i no erano in testa 57 a 32 per cento) e nessuno si sente di escludere una clamorosa secessione. Ma l’orgogliosa terra del kilt, del whisky e del mostro di Loch Ness rischia a sua volta, se diventerà Stato sovrano, di perdere immediatamente un pezzo del suo territorio. Tre minuscoli arcipelaghi a nord e a ovest della Scozia, le isole Shetland, le Orcadi e le Ebridi, hanno infatti lanciato una petizione per organizzare a loro volta un referendum per l’indipendenza. Per un millennio sono state governate dai vichinghi scandinavi, dunque è comprensibile che non si sentano molto britanniche: ma il punto è che non si sentono nemmeno completamente scozzesi. Cosa farebbero dell’indipendenza ancora non è chiaro. Circolano tre opzioni: costituire uno Stato autonomo; ricongiungersi alla Gran Bretagna; chiedere l’annessione alla Norvegia.
«Non siamo più piccoli del principato di Monaco, del Liechtenstein e della repubblica di San Marino, che sono tutti e tre rispettabili membri delle Nazioni Unite» dice Catriona Murray, promotrice di Referenda on the Islands, la petizione per il referendum. «Non abbiamo gli stessi soldi dei primi due, ma di sicuro abbiamo più risorse naturali del terzo».
Oltre ai pony e alle pecore, da cui si ricava la lana con cui vengono confezionati i maglioni omonimi, in effetti negli ultimi due decenni le pittoresche Shetland e Orcadi hanno scoperto di avere un tesoro formidabile: dalle loro acque viene estratto il 67 per cento del petrolio della Scozia. Se fossero indipendenti, anche prendendo con sé la popolazione delle Ebridi, i 70 mila abitanti dei tre arcipelaghi scozzesi sarebbero ricchi come e più del Qatar, una sorta di emirato del nord affogato nell’oro nero. Senonché proprio i giacimenti di petrolio sono una delle principali motivazioni che spingono la Scozia a chiedere l’indipendenza da Londra: anche il governo di Edimburgo pensa di poter guidare un piccolo ricchissimo Paese (il modello di riferimento, nel suo caso, è la Norvegia, anch’essa grande produttrice di petrolio), perciò non vede di buon occhio una possibile secessione delle sue isole. Ciò spiega perché negli ultimi mesi il primo ministro e leader del partito nazionalista scozzese Alex Salmond, mentre da un lato esalta i vantaggi dell’indipendenza dal Regno Unito per la Scozia, dall’altro ha già ricevuto mezza dozzina di volte i rappresentanti di Shetland, Orcadi ed Ebridi, offrendo loro più poteri, più autonomia, più devolution in materia di energia, trasporti, salute e pianificazione urbana, purché rinuncino ai progetti separatisti. Quel che va bene per la Scozia, a quanto pare, dal suo punto di vista non va bene per le isole scozzesi. Del resto le isolette scozzesi devono stare attente: fare uscire dalla bottiglia il genio (benefico o malefico, a seconda delle interpretazioni) del separatismo può risultare pericoloso per tutti, perché una volta uscito è difficile ricacciarlo dentro. A Sanday, nelle Orcadi, popolazione 550 abitanti, osserva il Guardian, la parte occidentale dell’isola è così diversa da quella orientale che la gente parla perfino con un accento differente: forse West Sanday dovrebbe organizzare un referendum per separarsi da East Sanday, ironizza il quotidiano londinese? Può sembrare una barzelletta: la «sindrome della matrioshka», una nazione perde una regione, che poi perde una provincia, che poi perde una città, che poi perde un quartiere, che poi perde una strada, ognuno alla ricerca di maggiore identità autoctona. Ma c’è poco da ridere: scenari analoghi si ripetono in tutta Europa, dalla Catalogna ai Paesi Baschi, dalla Carinzia alla Fiandre, per tacere dei referendum per l’indipendenza del Veneto o della Sardegna e senza dimenticare naturalmente quello che sta accadendo in Ucraina, dalla Crimea al Donbass. Né il fenomeno è limitato alla sola Europa: i movimenti secessionisti impazzano pure in Africa (ce ne sono sei in conflitto fra loro soltanto in Etiopia) e in Asia (una dozzina nella sola Birmania). Quanto all’America, basta ricordare che Lincoln scatenò una lunga guerra fratricida, più che per abolire lo schiavismo, per evitare la secessione degli Stati sudisti.
Naturalmente in questo campo non si può fare di ogni erba un fascio. Non tutti i nazionalismi sono uguali, né si somigliano tutte le istanze separatiste, sebbene il tema susciti qualche interrogativo: perché all’Occidente andava bene la secessione del Kosovo dalla Serbia, ma non quella della Crimea dall’Ucraina? E se la Scozia si arroga il diritto (negoziato con Londra) di separarsi dal Regno Unito, perché le Shetland hanno torto quando i loro leader dicono: «Vogliamo semplicemente decidere da soli il nostro destino»? Gli storici argomentano che l’unico metodo possibile per decidere se un Paese ha diritto all’indipendenza è vedere in che modo vengono trattati i suoi abitanti. Dove c’è oppressione, specialmente in materia di questioni etniche, la protesta nazionalista è legittima: «I movimenti anti-coloniali del ventesimo secolo erano chiaramente necessari» osserva il politologo Stephen Moss, «ma oggi in certe parti del mondo il nazionalismo, spesso metafora di tribalismo, è diventato un feticcio. Alcune nazioni possono essere un incidente della storia, ma se più o meno funzionano meritano di rimanere integre. Altrimenti torneremmo a un pianeta di villaggi in guerra tra loro». Commenta Bagehot, il columnist di affari europei dell’Economist: «Siamo di fronte alla crisi dello Stato-nazione, soppiantato da micro-nazioni, non spaventate all’idea di diventare indipendenti perché si sentono protette dall’ampio ombrello dell’Unione Europea». Proclamarsi cittadino della repubblica delle Shetland è più facile, in sostanza, se uno ha in tasca il passaporto della tanto vituperata Ue. Non a caso, sia la Scozia, sia le Shetland, nell’ipotesi che diventino indipendenti, vorrebbero continuare a fare parte dell’Unione. Con buona pace di pony, pecorelle e petrolio.
Enrico Franceschini, il Venerdì 30/5/2014