Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  maggio 31 Sabato calendario

GOOGLE DIVENTA IL GIUDICE DEL DIRITTO ALL’OBLIO


Google apre alla possibilità di ottenere la "rettifica" delle informazioni che circolano in rete sulla vita privata delle persone. E viene subissata di richieste da parte degli utenti: in un giorno l’Europa muove 12mila domande. Con una media di una domanda ogni 3 secondi. La scelta di Google è conseguenza della sentenza della Corte di giustizia Ue che il 13 maggio ha per la prima volta stabilito che un motore di ricerca può essere chiamato a cancellare informazioni per rispettare il diritto all’oblio – cioè il diritto a vedere cancellate informazioni – sulla vita privata. Da ieri la partita si è spostata online: un modulo ad hoc dà la possibilità di inviare la richiesta. Il giudice? Lo stesso motore di ricerca.
La geopolitica sta imparando a tener conto di nuovi soggetti che, in qualche misura, sfuggono al potere degli Stati o addirittura li sovrastano. La vita quotidiana di centinaia di milioni di persone è organizzata anche in base alle regole stabilite dalle grandi tecnocrazie sovranazionali, come quella europea, e dai giganti multinazionali, o extranazionali, dell’internet. Per alcuni osservatori vanno citate a questo proposito anche altre reti di potere che, in qualche caso, si sono sviluppate nel sistema finanziario, nell’intelligence o nei servizi segreti, talvolta nella criminalità organizzata. In ogni caso, il confronto tra Google e la Corte Ue sul "diritto all’oblio" ha esemplificato il fenomeno. Per anni, alcune importanti piattaforme internettiane hanno lentamente, ma inesorabilmente, demolito il concetto tradizionale di privacy. Ma recentemente, con una decisione molto forte, la Corte Ue ha imposto un cambio di rotta obbligando Google a riconoscere il "diritto all’oblio". E l’azienda ha deciso di rispondere costruttivamente. Ha trovato per ora una soluzione relativamente facile, dal punto di vista tecnico, che implica peraltro molto lavoro umano: sia da parte delle persone che sentono di essere danneggiate nella loro privacy e che chiederanno al motore di ricerca di rimuovere i link che portano a pagine «irrilevanti, obsolete o per qualunque motivo inappropriate»; sia probabilmente da parte dei funzionari di Google che dovranno in qualche modo controllare le richieste, il cui numero rischia di essere piuttosto elevato. Ci vorrà molta pazienza per usare questa soluzione. Il che ne riduce la probabilità di utilizzo. Sta di fatto che, con parole molto diplomatiche e consapevoli delle loro conseguenze politiche, il ceo di Google, Larry Page, in un’intervista al Financial Times ha accettato la decisione europea, presentato la soluzione che ha deciso di implementare, dichiarato il suo dispiacere per non aver partecipato meglio al dibattito europeo in materia e affermato che in futuro cercherà di sviluppare una capacità di considerare più attentamente il punto di vista europeo nell’interpretazione della vita in rete. L’altro fondatore di Google, Sergey Brin, ha ironizzato sul diritto all’oblio dicendo: «La mia speranza sarebbe di poter dimenticare la decisione della Corte». E il presidente Eric Schmidt ha commentato criticamente: «C’è una contraddizione tra il diritto all’oblio e il diritto di sapere». In ogni caso, è stata Google a trovare una forma pratica per rispondere alla decisione della Corte e a stabilire le regole con le quali accetterà le richieste degli utenti che vogliono far dimenticare vecchie notizie che li riguardano. Del resto, con mossa proattiva, proprio nei giorni scorsi la stessa Facebook ha cambiato le sue regole relative alla privacy, introducendo algoritmi che rendono più probabile che gli utenti si comportino in modo tale da tutelare meglio i dati che li riguardano. Il fatto è che le leggi del web che contano per la vita delle persone sono scritte proprio dalle piattaforme che definiscono interfaccia e algoritmi di funzionamento. Il "codice" delle leggi si confronta con il "codice" software del quale sono composte le piattaforme internettiane. Si osserva senza dubbio che in entrambe le accezioni il codice implica regole di comportamento, interpretazioni, abitudini e forme dinamiche di sviluppo. La libertà fiscale dei giganti del web è una dimostrazione evidente dell’impotenza degli stati. Il confronto tra le impostazioni politiche di alcuni stati, autoritari o democratici, e le strutture che organizzano la vita digitale delle loro popolazioni si esprime in forme di conflitto più o meno dichiarato, quando in gioco ci sono, di volta in volta, i diritti umani, la libertà di espressione, gli interessi delle lobby, i movimenti rivoluzionari e molto altro ancora. E la crescente rilevanza delle grandi piattaforme internettiane sulla costruzione del consenso, l’informazione, la socializzazione, l’educazione e l’economia, danno ai giganti del web un potere di innovazione politica i cui limiti sono ancora da comprendere in pieno.

Luca De Biase, Il Sole 24 Ore 31/5/2014