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 2014  maggio 31 Sabato calendario

NELLA TEHERAN DEGLI EBREI PATRIOTI “QUI SIAMO A CASA”


Youseph cammina ogni sera accanto alla moschea di piazza Fatemi, nel centro di Teheran. Prima di svoltare verso casa, alza gli occhi e getta un breve sguardo ai ritratti di Khomeini e dell’attuale Guida suprema Khamenei appesi al muro di un palazzo. Poi infila la strada in discesa dove abita. Alla fine della lunga giornata, davanti al letto, recita una preghiera, che suona un po’ diversa da quelle della moschea. Dice: «Shema Yisrael…» , ascolta Israele, la professione di fede degli ebrei nel loro Dio unico.
La cronaca proietta la sua luce vivida all’indietro, verso il passato, falsandone talvolta la percezione. Con l’attuale mortale inimicizia tra l’Iran e Israele, ci si dimentica che gli ebrei stanno qui da migliaia di anni. Certo, gli ebrei e Israele non sono la stessa cosa, ci sono persino sparuti gruppi di ebrei contrari allo stato ebraico, però per la maggioranza degli ebrei Israele è l’idea di casa. Un legame religioso e affettivo che qui, nonostante tutti lo neghino, crea un forte elemento di tensione, per lo più dissimulato. L’Islam lungo la storia ha di solito trattato gli ebrei meglio dei cristiani ma poi è venuto lo stato di Israele sulle terre dei palestinesi: è nata una lunga stagione di conflitti e odi con i musulmani che dura ancora.
La costituzione rivoluzionaria dell’Iran s’impegna a proteggere l’ebraismo ma dove c’è Israele lo stato iraniano vede soltanto la Palestina. Nella preghiera del venerdì a Teheran spesso i sermoni terminano con il coro: «Margh bar Israel», morte a Israele. L’Iran sostiene in Medio Oriente numerosi movimenti ostili a Israele. Lo stato ebraico contraccambia: a periodi alterni i giornali israeliani dedicano lunghe analisi per indovinare quando l’aviazione bombarderà le centrali atomiche iraniane. Molti analisti occidentali sono convinti che dietro gli assassinii degli scienziati nucleari iraniani ci sia il Mossad. In questo clima politico esacerbato, la vita felice degli ebrei iraniani appare nei fatti un’immagine un po’ troppo ufficiale. I falchi di un campo e dell’altro condividono la stessa visione dualista e iper-semplificata e gonfia di odio che divide il mondo in bene e male e non lascia spazio a mediazioni.
Nella parte più popolare di Teheran sud, non lontano dal bazar, c’è una delle più celebri istituzioni ebraiche, l’ospedale Sapir. È una vecchia casa dai muri bianchi su Mostafa Khomeini Street, la strada dedicata al figlio deceduto dell’imam, che tutti chiamano ancora col vecchio nome pre-rivoluzionario: Cyrus Street. L’ospedale è intitolato al medico ebreo che a metà degli Anni Trenta morì combattendo l’epidemia di tifo che decimò Teheran . Il Sapir è finanziato dall’associazione ebraica della capitale e dallo stato islamico, i pazienti sono per il 97 per cento musulmani, più o meno la stessa percentuale del personale. Il direttore sanitario è Ciamak Morsadegh, chirurgo col fisico da lottatore di sumo, deputato al parlamento iraniano in rappresentanza della comunità ebraica. È appena uscito dalla sala operatoria, sotto la manica rivoltata della casacca turchese c’è ancora una macchia di sangue. Spiega che gli ebrei in Iran sono circa 30 mila, la più grande comunità del Medio Oriente dopo quella israeliana, metà vivono nella capitale.
«Ogni comunità ha i suoi problemi – dice – ma noi qui viviamo bene. Nel paese ci sono più di 50 sinagoghe e non è mai esistito un ghetto come in Europa, siamo liberi di seguire la nostra religione come ci pare. Davanti alle sinagoghe (solo a Teheran ce ne sono 14) non servono misure di sicurezza, come capita in altre parti del mondo. Esistono poche limitazioni: un ebreo non può arrivare ai gradi più alti dell’esercito o della burocrazia statale, fare il ministro o il presidente, per il resto non c’è problema».
Il servizio militare è obbligatorio, come per tutti gli altri cittadini, e sono previsti permessi speciali in occasione dello festività ebraiche. Tra i caduti della guerra Iran-Iraq degli anni ’80 c’erano anche quindici ebrei. «Le nostre vere ansie - spiega Morsadegh - sono quelle di tutti gli altri iraniani: il lavoro, l’inflazione, il costo della vita».
Per un’ironia della topografia, il Tapo26, uno dei due ristoranti «kosher» di Teheran (dove si cucina cioè secondo le norme religiose ebraiche), è in Felestin Street, via Palestina. Il proprietario David Shumer è alla cassa. «Qui stiamo benissimo – dice – siamo completamente inseriti nella società. Visitare Israele? Non è difficile, io ci sono stato una volta». La situazione tuttavia non è così semplice e specialmente i permessi multipli (cioè per intere famiglie) sono quasi impossibili a ottenere. La verità è che le autorità islamiche temono forme di spionaggio a favore di Israele e la cosa complica irrimediabilmente i rapporti, nonostante ufficialmente la comunità ebraica prenda spesso le distanze dalla politica di Israele.
Dal lato opposto di Cyrus Street rispetto all’ospedale c’è la piccola sinagoga di Molla Hanina. Nell’atrio dell’ingresso borbottano sul fuoco due enormi pentoloni. La gente arriva a piccoli gruppi per la festa di Rabbi Shamuune. Sul tavolo nell’atrio c’è un vassoio di dolci al burro ripieni di crema che chiamano «danesi». La sinagoga è piccola, dietro il pulpito, tra due menorà stilizzate (i candelabri ebraici), c’è l’armadio che contiene i rotoli della Torah, la sacra scrittura. Marjan, poco più di vent’anni, spiega con orgoglio: «In sinagoga a differenza che in moschea uomini e donne possono pregare insieme». Tutti apparentemente assicurano di non avere problemi con le autorità. Il tempio ha anche una sua pagina di Facebook, peccato che in Iran Facebook sia molto difficile da vedere.
L’unico tenue filo che lega Israele e l’Iran sono i pistacchi. Israele è uno dei più grandi consumatori e l’Iran uno dei più grandi produttori. Qualche anno fa gli israeliani quasi litigarono con gli americani per continuare a importare i pistacchi iraniani. Che un giorno lontano possa nascere una diplomazia dei pistacchi? Oggi appare l’unica surreale speranza.

Claudio Gallo, La Stampa 31/5/2014