Federico Rampini, la Repubblica 31/5/2014, 31 maggio 2014
PERCHÉ HANNO PAURA DELLE IDEE DI PIKETTY
Thomas Piketty è il Nemico Pubblico da abbattere. L’Internazionale neoliberista si mobilita per demolire un economista francese semi-sconosciuto (al pubblico di massa) fino all’altroieri. Dal Wall Street Journal al Financial Times, gli organi più autorevoli del pensiero unico mercatista, è un crescendo di attacchi contro lo studioso parigino, “colpevole” di aver messo le diseguaglianze sociali al centro dell’attenzione nella comunità scientifica.
Il Financial Times ha messo al lavoro per settimane una task force di economisti e giornalisti. La loro missione: scovare errori nel saggio Il Capitale nel X-XI secolo , il monumentale studio che Piketty ha dedicato alle diseguaglianze nel capitalismo degli ultimi due secoli. Gli attacchi pubblicati dal Financial Times — e rintuzzati dall’economista francese con una risposta molto dettagliata, ripresa dal New York Times — lasciano interdetti e perplessi per la loro futilità. Se non fosse che quelle accuse lasciano intuire ben altro; l’accanimento contro Piketty sembra una resa dei conti, il tentativo di mettere a tacere una voce scomoda screditandola sotto il profilo scientifico. Il nucleo sostanziale delle 600 pagine di Piketty è questo: il capitalismo è stato accompagnato da diseguaglianze estreme dalla Rivoluzione francese fino alla prima guerra mondiale; è seguito un periodo di relativo livellamento dei patrimoni e dei redditi fra le classi sociali nel XX secolo (compreso il trentennio “glorioso” dopo la seconda guerra mondiale); infine negli ultimi trent’anni le disparità hanno ripreso a salire a livelli estremi. Anche perché una oligarchia di privilegiati — in particolare i top manager — hanno “fatto secessione” dal resto della società, conquistandosi il potere di auto-determinare i propri compensi senza alcun nesso con la loro produttività reale. Tesi doppiamente scomoda. Sia perché individua cause precise dietro le diseguaglianze. Sia perché dimostra che queste non sono affatto inevitabili.
Gli “errori” che il Financial Times pretende di aver individuato sono marginali e contestabili. Il quotidiano sostiene ad esempio che Piketty avrebbe dovuto usare statistiche sulla tassa patrimoniale svedese del 1920 anziché del 1908; oppure contesta alcune stime sul “differenziale di mortalità” in Francia. La difesa argomentata di Piketty si avvale del fatto che il suo studio non è un exploit individuale: ci hanno lavorato più di trenta economisti di vari continenti, da 15 anni, inclusi docenti di Berkeley, California. Il libro viene accompagnato da sterminate appendici di dati archiviate online per non appesantire oltremodo la lettura.
La vera notizia è proprio questo accanimento. Cosa c’è dietro? La gelosia è uno dei possibili moventi visto che Piketty si è imposto come un fenomeno da star-system che non ha precedenti nella “scienza triste” (come viene definita l’economia): invitato da Barack Obama per un incontro coi consiglieri della Casa Bianca; poi dai due Nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz a New York, infine da Harvard. Il suo libro è in vetta alle classifiche negli Stati Uniti.
Ma l’ostilità verso Piketty ha motivazioni più profonde. Il francese non è sconosciuto negli ambienti accademici. Enfant prodige della sua disciplina, brillante matematico, insegnava al prestigioso Massachusetts Institute of Technology quando era ventenne. Poi fece un affronto imperdonabile: voltò le spalle alle università americane e tornò a lavorare in Francia. Con due accuse pesanti: criticando gli economisti Usa per la loro “deriva matematica” (modelli sempre più complessi e sempre meno attinenti ai problemi reali), ed anche per i loro latenti conflitti d’interessi. Quest’ultima accusa venne lanciata, a livello divulgativo, anche dal celebre documentario Inside Job: con nomi e cognomi di illustri economisti arricchiti grazie a consulenze per i big di Wall Street, l’industria petrolifera, ecc.
Il Financial Times è un ottimo giornale, ma non ha mai preso le distanze dall’ideologia neoliberista, neppure dopo il disastro sistemico del 2008. Il mercato è (quasi) sempre la soluzione dei nostri problemi, a leggere i suoi editoriali. Le energie che oggi il Financial Times dispiega per demolire Piketty, non le ha dedicate con la stessa intensità e coerenza a individuare tutti gli errori della scienza economica neoclassica e liberale degli ultimi trent’anni. In questo il Financial Times e il Wall Street si accodano ad un comportamento omertoso che accomuna gran parte degli economisti: una scienza colpevole di tanti danni e incredibilmente avara di autocritiche.
Piketty ironizza sul fatto che «secondo il Financial Times l’Inghilterra di oggi sarebbe una società più egualitaria di quanto lo sia stata la Svezia» nel periodo di massima redistribuzione sotto governi socialdemocratici. Una tesi che contraddice l’evidenza empirica e sbeffeggia il buonsenso comune. Un altro economista controcorrente, l’australiano David Gruen, ha descritto in questi termini il comportamento dell’establishment neoliberista alla vigilia del disastro sistemico del 2008: «È come se sul Titanic, avviato alla collisione finale contro l’iceberg, tutti quelli che avrebbero potuto e dovuto avvistare il disastro, fossero rimasti chiusi dentro una cabina senza oblò, impegnati a disegnare una nuova nave meravigliosa, fatta per un mare senza iceberg». Un grande intellettuale inglese scomparso, Tony Judt, ricordava quel che fu l’austerity del dopoguerra: la ricchezza e il reddito in Gran Bretagna vennero redistribuiti con una fiscalità progressiva che oggi sembrerebbe da esproprio. La quota del patrimonio nazionale detenuta dall’1% dei più ricchi era scesa brutalmente, dal 56% del 1938 al 43% nel 1954. Il 13% di ricchezza redistribuita è un’operazione “livellatrice” di rara potenza. Ben diversa dal segno sociale dell’austerity di oggi. Tutto questo accadde in un’economia capitalistica, che seppe poi sprigionare il boom degli anni Sessanta. Piketty risulta insopportabile alle poderose armate del neoliberismo, perché lui non è un neomarxista, non è un pensatore utopico e radicale. Dimostra che un capitalismo meno diseguale è possibile, perché in realtà è già esistito.
Federico Rampini, la Repubblica 31/5/2014