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 2014  giugno 01 Domenica calendario

“MACCHÉ LOLITE, HANNO SCRITTO SOLO DELLE BUGIE”

[Intervista a Woody Allen] –

Signor Allen, Federico Fellini scoprì da bambino la sua vocazione per lo spettacolo, giocando con i burattini, Ingmar Bergman guardando le lanterne magiche, e lei?
Anch’io ho cominciato da bambino, nascondendomi nei cinematografi per non andare a scuola. Odiavo le ore passate in aula e non mi piaceva molto neppure il mondo esterno. Così mi rifugiavo nel buio delle sale cinematografiche e mi consolavo con quelle storie meravigliose: i film spaziali, le avventure dei pirati, i musical, le pellicole western. Le consideravo delle esperienze fenomenali e mi hanno sicuramente influenzato.
Che cosa significa essere nato in una famiglia ebrea?
Non mi ha creato problemi particolari perché tutti, lì a Brooklyn, erano ebrei. Per questo non ho avuto da bambino, contatti diretti con l’antisemitismo o con altra gente di religione differente dalla mia. Io sono cresciuto in quella che potremmo definire una “sacra comunità ebraica”, eravamo religiosi.
Lei si sente ebreo?
Mi sento un essere umano. Non mi sento né ebreo né cattolico né protestante. Credo che ci siano dei club cui la gente può aggregarsi se vuole, ed entrare a farne parte, ma che non hanno nulla a che fare, nel profondo, con l’essere umano.
Come mai i più grandi comici di tutti i tempi, dai fratelli Marx a Jerry Lewis e anche Charlie Chaplin, sono ebrei? Esiste forse una scuola di umorismo ebraico?
Non credo che i più grandi comici siano stati tutti ebrei. Chaplin lo era solo per metà, come anche Peter Sellers. Mentre William Claude Fields non lo era affatto e neppure Jonathan Winters, che fu un grandissimo comico. E non lo erano neppure Oliver Hardy e Buster Keaton. Non è ebreo neanche Bob Hope. Penso piuttosto che ci sia un modo ebreo di fare humor: ma forse è una caratteristica ad altri gruppi etnici. I neri, ad esempio, hanno tutti uno stile di humor specifico e riconoscibile, ereditato dalla razza. Noi ebrei tendiamo a parlare sempre di certi temi. Così immagino sia anche per i vostri comici italiani.
Come sono stati gli inizi della sua carriera?
Ho cominciato molto giovane. Avevo solo sedici anni e già scrivevo barzellette e gag per la radio e la televisione. Io l’ho sempre considerato un lavoro: sa, in un mondo come il nostro c’è una grande richiesta di gente che sappia scrivere scherzi e cose divertenti. Dopo sette anni passati a ideare battute per gli show televisivi, ho deciso di diventare un attore di cabaret e di scrivere qualcosa per il teatro. Poi il caso ha voluto che qualcuno mi venisse a chiedere una commedia da portare sul grande schermo. A mio avviso non era un granché, ma ebbe successo. Da quel momento si sono spalancate per me le porte del cinema. Con questo non voglio dire che la fortuna sia tutto, ma che è una parte molto importante nella nostra vita.
Signor Allen, lei è un genio della comicità: è difficile far ridere oggi?
Non è difficile, però diventa ancora più facile quando i tempi sono difficili. Un amico, che era stato in campo di concentramento, aveva riscosso un grande successo tra i suoi compagni di prigionia con uno spettacolo di cabaret. E nel ghetto di Varsavia, nelle condizioni di vita che potete immaginare, la gente accorreva in massa ad assistere ai varietà satirici e alle commedie.
Ha dei modelli? Qualche maestro?
Di artisti meravigliosi ce ne sono molti. Ma non ho avuto la fortuna di conoscerli personalmente: parlo di Charlie Chaplin, dei fratelli Marx, di Buster Keaton. Sono gli unici che mi hanno divertito e che continuano a divertirmi. Il mio sogno sarebbe di poter assomigliare a uno di loro.
Si sa che per lei lo psicanalista è un riferimento importante. Una volta ha anche detto: “Ho sognato di essere il collant di Ursula Andress”.
È successo parecchi anni fa; ora sono molto maturato e non ricordo più i sogni come una volta. Quando ero giovane li ricordavo tutti perfettamente, fin nei particolari: ma non mi erano di aiuto. E così ho imparato a dimenticarli.
Che effetto le fanno le critiche? La feriscono oppure l’aiutano?
Né caldo né freddo. Il successo di un mio film non è decretato dai critici ma dal pubblico che fa la fila ai botteghini. Io faccio solo quello che sono in grado di fare e nessuno mi può influenzare sul lavoro.
Ci sveli un segreto: come nasce una battuta?
Non c’è una regola. È questione di fortuna: c’è chi nasce con il senso dell’umorismo e chi ne è sprovvisto, altri sanno disegnare o sanno progettare mobili e vestiti. Io sono sempre stato capace di divertire.
Crede che cambi coi tempi? Di che cosa si ride oggi?
Credo che ciò che fa ridere sia cambiato solo apparentemente. Tornando a leggere le commedie di Aristofane, che pure risalgono a molto tempo fa, ci si accorge che la satira politica o sociale è la stessa, e così pure sono identiche le cose di cui ridiamo, oppure le battute sul sesso: in pratica la struttura rimane invariata, ciò che cambia è il linguaggio.
Nei suoi film c’è sempre molto di autobiografico: lei si racconta?
Spesso si pensa che sia autobiografico ciò che in effettinonloè.Quandoscrivounatramaeparlodi un personaggio che magari fa il comico o lo scrittore, la gente pensa che quello sono io. Ma in effetti non c’è niente di autobiografico. È un caso.
Come nascono le sue storie?
Odio sembrare poco modesto, ma è ispirazione. Posso camminare per strada o farmi la barba o parlare con qualcuno: sento qualcosa, lo scrivo su un pezzetto di carta, lo infilo in un cassetto. Poi, un anno dopo, quando sono pronto, tiro fuori tutte le idee e ne scelgo una. Non c’è una spiegazione logica.
Dalle sue dichiarazioni, lei non sembra molto soddisfatto di quello che ha ottenuto. Perché?
Sono convinto che ogni mio film sia un fallimento: parto sempre con grandi speranze ma poi rimango quasi sempre deluso nelle mie aspettative e mi convinco di avere rovinato un’altra grande idea. Poi però mi consolo, sperando che il prossimo film sia migliore.
Chiesero una volta a Hemingway se pensava mai a Dio. “Qualche volta, di notte”, rispose. E lei?
Quello di pensare a Dio è un problema che mi provoca ansia da sempre. Credo che ognuno di noi, se intellettualmente onesto, debba essere per forza agnostico perché nessuno sa se esiste Dio oppure no. Tuttavia nel profondo credo di essere ateo.
C’è qualcosa in Isaac Davis, il protagonista del film “Manhattan”, in cui lei si riconosce?
Ci sono dei tratti del personaggio che mi piacerebbe avere. Mi capita spesso di desiderare le qualità dei personaggi che creo.
Anche per lei le donne sono tutto quello che possiamo conoscere del paradiso terrestre?
Lo disse Camus e aggiunse che l’uomo avrebbe sperimentato la donna sulla terra. C’è molto di vero in questa affermazione
Lei una volta ha detto: “Ho imparato molto dalle donne”. Che cosa?
Sono cresciuto in una famiglia piena di donne: mia madre, mia sorella, un sacco di zie. Ero l’unico uomo, anche tra i miei cugini c’erano solo femmine. Poi nella vita ho sperimentato matrimoni e lunghe relazioni con donne molto interessanti: tutte mi hanno insegnato cose diverse, hanno aiutato il mio gusto artistico, hanno contribuito a formare il mio modo di osservare il mondo, il mio modo di pensare alla società, al sesso, all’umanità in genere. Ho conosciuto donne superiori a me intellettualmente e anche nell’aspetto fisico e sono stato capace di trarre molti insegnamenti da loro.
Come affronta le inevitabili delusioni sentimentali?
Mi immusonisco. Rimango per molto tempo deluso e triste. E ci soffro. Per fortuna ci sono gli amici che mi aiutano a uscire da queste situazioni.
Hanno scritto che lei ha il complesso di Nabokov, delle “Lolite”. Più sono giovani e meglio è.
Questo è solo falso giornalismo. È un’impressione suscitata dal film Manhattan. In cui il protagonista flirta con una ragazza di sedici anni.
Il concetto di bellezza è cambiato: si è passato da Rita Hayworth a Barbra Streisand, da Clark Gable e Dustin Hoffman e a lei.
Non so se veramente è il concetto di bellezza che cambia. Io penso che in effetti la Hayworth era bellissima, ma Streisand ha più talento e carattere, anche se non è così bella, e sicuramente sarà ricordata più a lungo. Neppure Dustin Hoffman è bello come Clark Gable, ma è senza dubbio cento volte più bravo come attore. Sono i valori umani che cambiano. Più uno matura e più si rende conto che non ci può essere paragone tra la avvenenza di Rita Hayworth e di Gable e la bravura della Streisand e di Hoffman. Quanto a me, mi ritengo fuori dalla contesa.
I grandi temi, l’amore ad esempio. Alla domanda: “È più importante essere innamorati o amati?” lei ha risposto: “È una questione senza interesse, che passa in secondo piano se il vostro tasso di colesterolo supera 600”.
È profondamente vero, perché la cosa più importante nella vita è la salute, poi vengono: l’amore, le conoscenze culturali e tutta una serie di valori che ognuno gradua a suo piacimento. Circa il fatto di essere amato o di amare, personalmente sono più portato ad amare. Ognuno di noi è senz’altro stato soggetto inconsapevole di infatuazioni o di amori, che come tali non hanno sortito alcun effetto. È molto più bello amare qualcuno, anche se non si è ricambiati.
Lei dice: “Il giorno della mia morte cercherò di non esserci”. È una prospettiva che la ossessiona?
È un problema per me come lo è per tutti penso. Ognuno di noi cerca comunque di respingere questo pensiero, immergendosi nel lavoro, o magari facendo altre cose.
Lei ha detto: “Credo, come Oscar Wilde, che l’arte sia inutile”.
Non è assolutamente inutile, ma non è neppure tanto utile come la gente è portata a credere. Ci sono cose ben più importanti come ad esempio la medicina. L’arte viene solo dopo, quando hai già risolto i problemi più concreti della vita. Considero molto fortunati quegli artisti che hanno innato il senso del bello, della letteratura, della musica, della poesia, della pittura. Ritengo l’arte solo un passatempo, un divertimento; ma sicuramente meno importante del mangiare.
Come la mette con la politica?
Non ho una buona considerazione della politica perché ritengo che tutti i politici, in tutto il mondo, in ogni epoca, si siano comportati in modo vergognoso.
Lei si colloca a sinistra o a destra?
Mi considero più a sinistra. Anche se qualche volta posso avere un atteggiamento conservatore su qualche aspetto particolare.
Che cosa ama di più dell’America?
Sotto tanti aspetti è un grande paese. È una nazione che funziona, dove esiste veramente una grande libertà. Abbiamo la fortuna di possedere molte risorse naturali e siamo garantiti da un’ottima Costituzione lasciataci da uomini molto intelligenti e liberali.
Signor Allen dicono che lei è un timido: di che cosa ha soggezione?
È un tratto naturale della mia personalità. Sono riservato per natura e non cerco mai di creare tensione o di incontrare troppa gente.
Soffre di solitudine?
Sì, ma faccio di tutto per tirarmene fuori. Altrimenti diventerebbe una condanna. Soffro di solitudine perché non ho molti amici, e perché passo molto tempo da solo, a scrivere e a lavorare.
Perché dopo esser diventato Woody Allen, si è ispirato a Fellini e a Bergman?
E perché no? Sono persone che ammiro molto, sono due grandi artisti del cinema, forse i più grandi. È sempre un’esperienza entusiasmante vedere i loro film: ne trai sempre un’ispirazione.
Lei è più soddisfatto di Woody Allen attore o regista?
Indubbiamente del regista. Non ho le qualità per fare l’attore; come interprete sono limitato a certi ruoli. Mentre come regista potrei arrivare al livello di Tennessee Williams o di Cechov.
Insomma, chi è questo Woody Allen?
Uno dei tanti nati a Brooklyn, molto fortunato per essere nato con il dono di far divertire la gente. Con il mio lavoro mi sono mantenuto a scuola e sono riuscito a entrare nell’ambiente del cinema e del teatro. Se non fossi nato artista oggi probabilmente farei il dottore, o l’avvocato, o il tassista. Nella mia famiglia non sono l’unico ad avere il pallino della comicità e questo talento mi ha permesso di cambiare la mia vita: che ritengo fortunata, molto fortunata. Biagi posso chiedere a lei chi è Woody Allen?
Signor Allen rispondo con piacere: un grande uomo.
Oh, grazie, appena lo vedo glielo dirò.

Enzo Biagi, Il Fatto Quotidiano 1/6/2014