Riccardo Antoniani, Il Sole 24 Ore 1/6/2014, 1 giugno 2014
MISTERI D’UN CAPITANO
Sovente adombrato dall’agiografia matteiana e relegato al purgatorio in cui, esauritasi la cronaca, la storiografia azzarda i primi passi, a dieci anni dalla morte Eugenio Cefis rimane una figura emblematicamente indecifrabile del nostro Dopoguerra.
Su «l’Espresso», l’amico Bancor lo definì «campione della borghesia di Stato» da quando coadiuvato da Enrico Cuccia, nel 1971 lasciò l’Eni per insediarsi alla Montedison, passando il Rubicone che all’epoca spartiva l’industria pubblica e privata; «i proprietari dai fittavoli», disse Cefis. Si inaugurò allora lo scontro interno al capitalismo italiano più violento della storia repubblicana e che registrò una tregua nel 1974 con la presidenza di Gianni Agnelli in Confindustria e di Cefis come suo vice. La «guerra totale, senza possibilità di compromesso ai bastardi della razza padrona» si scatenò – secondo Cefis – poco dopo con l’omonimo libro di Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani, «vademecum degli imprenditori privati spinti alla riscossa contro i boiardi di Stato».
In quegli anni fragili per la democrazia, con Petrolio – il romanzo rimasto incompiuto quando nel 1975 si approfittò di un’abitudine per assassinare un poeta – anche Pasolini tratteggiò sinotticamente il perimetro che serrava l’economia alla politica, avendone poeticamente intesi gli attori in gioco e politicamente comprese le rispettive strategie. Attribuendo al Clausewitz della chimica una serie di correità – l’omicidio di Enrico Mattei, lo sviluppo senza progresso, le connivenze con l’eversione nera e le mire golpistiche – per le sue ricostruzioni Pasolini s’avvalse dei discorsi di Cefis e d’un pamphlet che negli ultimi mesi di vita gl’inviò Elvio Fachinelli, quando l’analista tentò di coinvolgere l’intellettuale corsaro nel progetto d’un libro di pronto intervento sul manager Montedison.
Il pamphlet era Questo è Cefis di Giorgio Steimetz, nom de plume di Corrado Ragozzino e Luigi Castoldi. Fu loro commissionato dal senatore Graziano Verzotto, il cui progetto di metanodotto tra l’Algeria e la Sicilia collideva con gli interessi legati alla flotta metaniera di cui Cefis era principale beneficiario e che costituiva – per il presidente dell’Ems – la vera zecca dei fondi neri dell’Eni. Dopo questi attacchi, Verzotto fu coinvolto nello scandalo della Banca Privata di Sindona, e nel 1975 fuggì, via Beirut, a Parigi. Rientrato nel 1991, fu ascoltato dall’allora viceprocuratore pavese Vincenzo Calia nell’ambito della nuova inchiesta sulla morte di Mattei, avanzando una regia italiana e d’una corresponsabilità di Cefis per l’attentato di Bascapé. Una tesi cui, per altre vie, già nel 1994 giunse Leonardo Maugeri.
L’inchiesta si risolse con un’archiviazione ma riuscì a fornire delle certezze probatorie e un quadro storico imprescindibili per comprendere quello che Amintore Fanfani definì il «primo gesto terroristico nel nostro Paese, il primo atto di una piaga che ancora ci perseguita».
Inoltre, Calia dimostrò che intere sezioni di Petrolio ricalcavano il testo di Steimetz. Un’evidenza che sommandosi alla notizia sul furto dell’Appunto 21 "Lampi sull’Eni" di Petrolio – su cui gli eredi del poeta sono tra loro discordi – fece pensare, per la notte ostiense, a un coinvolgimento di Cefis. Eventualità riproposta nel 2010, quando Marcello Dell’Utri confermò l’esistenza del capitolo rubato, offertogli da un anonimo proprietario poi scomparso. Tuttavia, il manager-bibliofilo presentò un’inedita biografia sul magnate della chimica: Uragano Cefis di Fabrizio De Masi, edito dall’ERG con una presentazione di Pier Crescentini. Pseudonimi, sembra ancora una volta, di Ragozzino e Castoldi. Uno stesso furore ne ubriaca i 14 capitoli; stessi i caratteri e il formato; simili gli epiteti al vetriolo e i presunti illeciti; stessa la dovizia per i retroscena illustrati, indici della longa manus di un confidente avvezzo agli arcani dell’Eni cefisiana oltreché d’una ferrata domestichezza tra gli archivi tributari e dei tribunali.
Quando nel 1972 uscì Questo è Cefis, uomini della Montedison si mossero efficacemente per toglierne dal mercato il maggior numero di copie e scongiurare il rischio di un’inchiesta giudiziaria al presidente. Accertata l’abilità destabilizzante dei suoi autori, fu loro commissionato un libro – Il malaffare di Diego Monteplana, Edizioni Everest, 1974 – su Nino Rovelli che nel 1973, patrocinato da Andreotti e Girotti, aveva invano tentato una scalata al gigante chimico.
Dissacrante e denigratorio come il libro del ’72, Uragano illustra «la storia mediocre di un uomo mediocre, un’indagine spietata del Sistema-Cefis che non lascia adito a interrogativi inevasi, per un giudizio quasi definitivo in un processo a porte spalancate». Parimenti a Questo è Cefis, di Uragano sparirono – se mai arrivarono – le copie d’obbligo presso biblioteche nazionali; ma diversamente dal testo di Steimetz, non n’è rimasta traccia negli archivi dei nostri Servizi. Ignoto perfino alle stanze montedisiane, verosimilmente del libro di De Masi fu stampato solo qualche esemplare.
Uragano non reca data, ma fu scritto plausibilmente agli inizi del 1975. Nel capitolo dedicato alle incursioni cefisiane nell’editoria, si denuncia l’assalto al Corsera in cui furono trascinati, dal luglio 1974, i Rizzoli. Ritiratosi in Svizzera nel 1977, Cefis restò comunque a capo della Montedison International da cui revocò il vantaggioso credito elargito ai Rizzoli, così costretti ad affidarsi al circuito bancario piduista. Lo stesso che fu fatale a Roberto Calvi e che per il figlio Carlo s’ascriveva a una strategia «il cui obbiettivo era utilizzare i Rizzoli come avamposto per controllare la finanza e l’editoria secondo un’idea di Cefis e di Giorgio Corsi e di cui si approprierà Umberto Ortolani».
Quest’aderenza tra sistema-Cefis e P2, già accusata da Massimo Teodori, trovò un fondamento quando Calia rinvenne a Forte Braschi alcune veline del Sismi che, oltre a confermare la paternità cefisiana della loggia deviata, registravano degli incontri tra Gelli e Cefis nell’agosto del 1982, cioè quando anche il grand maître aretino, ricercato dalla giustizia, rifugiò in Svizzera.
Questa manciata di testi eterogenei ripercorre la parabola di un capitano d’industria straordinario e spregiudicato, lasciandone però eluse quell’alfa e omega che nemmeno un capitolo rubato sembra acclarare.
Non parlano del periodo partigiano di Cefis, quando da ufficiale del Sim roattiano s’unì alla Brigata di Alfredo Di Dio, sulla cui morte fu dopo ricattato. Vi è poi la presunta complicità d’alcuni suoi uomini nella scomparsa del maggiore William Holohan, ancorché incaricati della sicurtà delle missioni alleate nel nord Italia. Nacque allora il sodalizio con Emilio Daddario – l’agente che riuscì a catturare Graziani e il principe Borghese ma che fallì con Mussolini – e tramite lui con l’OSS di Dulles e Angleton. Quali implicazioni comportò tale saldatura e come favorì l’implacabile ascesa, non solo manageriale, e il repente abbandono di Cefis? Le sue presidenze furono anche veicolari all’imposizione di politiche economiche estranee al nostro Paese?
Precedendo di poco l’impeccabile ritirata con cui Cefis, si disse, trasse in salvo anche i suoi fidati, questi testi ignorano che «abdicò a soli 56 anni, come nel Cinquecento aveva fatto Carlo V». Fu, com’egli sostenne, l’insofferenza per una classe politica che gli impediva di competere ad armi pari con gli avversari internazionali? O quella svolta tecnocratica, annunciata a un pubblico militare e che avrebbe visto in Fanfani il De Gaulle italiano e in lui un Pompidou, era divenuta impraticabile, perseguibile? Quali potentati operarono per disinnescarne il golpe e come?
Domande senza risposta che non ammettono, per ora, che altri interrogativi. Non di meno domande utili, citando Giulio Sapelli, «non solo per comprendere l’Italia degli anni che vanno dalla Resistenza alla fine del decennio Settanta del Novecento, ma anche per intendere il senso ultimo e vero dello scontro che si sta ancora oggi consumando sotto i nostri occhi nell’anello del potere che tiene unite economia e politica».
Riccardo Antoniani, Il Sole 24 Ore 1/6/2014