Roberto Casati, Il Sole 24 Ore 1/6/2014, 1 giugno 2014
NON AVETE NIENTE DA NASCONDERE?
«Io non ho nulla da nascondere. Non mi interessa se mi stanno sorvegliando, non scopriranno nulla!» Sento sempre più spesso questa frase in conversazioni casuali o discussioni pubbliche quando sollevo il problema dell’eccesso di sorveglianza. La frase viene usata da un tipo di persone, che chiamerò gli Indifferenti, per giustificare che non ci si preoccupi più del fatto che qualcuno possa star raccogliendo in modo massiccio dei dati su di noi. Se il vostro cellulare è acceso, le compagnie telefoniche sanno dove siete, con buona approssimazione. Se l’antenna del GPS è collegata, i produttori del vostro telefono (e molti dei loro clienti) sanno dove siete e quando, con quasi assoluta precisione. Ma per l’appunto, dicono gli Indifferenti, non avete nulla da nascondere, e quindi non avete ragione di preoccuparvi.
Penso che si debba resistere a questa linea di pensiero, rifiutando la premessa maggiore dell’argomento: «Non ho nulla da nascondere, quindi sono collegato in permanenza». Infatti il condizionale che esprime la premessa è equivalente a quest’altro: «Non sono collegato in permanenza, quindi ho qualcosa da nascondere». A furia di ripetere la prima formulazione del condizionale, finiremo automaticamente con il fare nostra l’altra.
Ci sono diverse ragioni per rifiutare la linea di pensiero degli Indifferenti. La prima è che dal fatto che uno non abbia nulla da nascondere, non segue che uno non possa legittimamente desiderare di starsene al riparo da un occhio che sorveglia. La sfera privata è fatta soprattutto di molte cose innocenti che uno vuole fare in santa pace, cose non riprovevoli, non censurabili, non illegali, e quindi cose delle quali diremmo, se ce lo chiedono, che non sono "da nascondere". Ma cose che ci piace e ha senso mantenere private. La seconda ragione è che io potrei non avere nulla da nascondere, ma non essere affatto d’accordo sul fatto che qualcuno sappia tutto quello che faccio, e che usi queste informazioni a fini che non sono stati da me autorizzati.
La terza ragione è che la linea di pensiero che voglio criticare ribalta l’onere della prova spostandolo dall’accusa alla difesa. In sostanza, se ci adeguiamo, ci verrà sempre più richiesto di avere sempre un alibi pronto. Questo perché un’assenza di dati (o di metadati) al nostro riguardo verrà del tutto naturalmente interpretata come un occultamento di prove. Dato che la stragrande maggioranza della popolazione è tracciabile per il semplice fatto di avere un telefonino acceso in tasca, una assenza di collegamento verrà interpretata come un comportamento sospetto («hai qualcosa da nascondere, per questo tenevi il cellulare spento o in modalità aereo»). Non penso qui soltanto alle telecamere nei centri commerciali o alla NSA. Le compagnie di assicurazione offrono oggi uno sconto a chi attiva una scatola nera per registrare il comportamento alla guida della propria auto. Queste scatole nere possono raccogliere dati che riguardano gli incidenti, ma anche dati comportamentali. Con il diffondersi di videocamere miniaturizzate come quelle incorporate negli occhiali di Google e di registratori biometrici a basso costo, le compagnie di assicurazione saranno tentate di premiare chi "indossa" in permanenza degli strumenti di rilevazione («potremmo rilevare in tempo reale i segni premonitori di un infarto, ci pensi?»).
Ma questo ci porterà verso una transizione concettuale sulla quale, temo, dovremo negoziare duramente negli anni a venire. Se passeremo da un’immagine di noi stessi come individui a un’immagine di noi stessi come generatori di dati – biodati o sociodati; se il non indossare un qualche device per la raccolta automatica di dati verrà considerato sconveniente (stigmatizzatione), potenzialmente criminale («metti in pericolo anche la sicurezza altrui») e verrà disincentivato economicamente (assicurazioni), non saranno soltanto le aree di privatezza a essere minacciate; si creeranno zone di esclusione sociale, marginalità senza ritorno, anche attorno ai comportamenti più innocenti.
Roberto Casati, Il Sole 24 Ore 1/6/2014