Andrea Malan, Il Sole 24 Ore 1/6/2014, 1 giugno 2014
FIAT, DA MULTINAZIONALE ITALIANA A GRUPPO GLOBALE
Dieci anni fa il consiglio d’amministrazione della Fiat, guidato dal neo presidente Luca di Montezemolo (con John Elkann alla vicepresidenza), nominava Sergio Marchionne amministratore delegato. La morte di Umberto Agnelli, qualche giorno prima, e l’allontanamento di Giuseppe Morchio da parte della famiglia Agnelli, avevano lasciato un vuoto in un momento tra i più difficili della storia dell’azienda: il bilancio 2003 si era chiuso con un rosso di 2 miliardi e i conti erano rimasti a galla anche grazie al prestito convertendo concesso da una cordata di banche nel 2002, che di lì a poco più di un anno - nel settembre 2005 - avrebbe potenzialmente consegnato le chiavi del Lingotto ai creditori.
Marchionne era in consiglio Fiat da poco più di un anno, chiamato da Umberto Agnelli dopo i successi alla guida della svizzera Sgs. In dieci anni il manager italo-canadese, allora un perfetto sconosciuto per la maggior parte degli italiani, ha trasformato la Fiat da una multinazionale italiana in un gruppo globale. Come?
Partiamo dai numeri. Il bilancio 2003 di Fiat si era chiuso con una perdita operativa di 500 milioni, un passivo netto di quasi 2 miliardi, un fatturato di 49 miliardi e 162mila dipendenti di cui circa 80mila in Italia (compresi quelli della joint venture nei motori con General Motors); dieci anni dopo le stesse attività - divise ora in due società distinte, Fiat spa e Cnh Industrial - hanno guadagnato 5 miliardi a livello operativo e 2 miliardi di utile netto su un fatturato più che raddoppiato a 112 miliardi, con quasi 300mila dipendenti di cui 81mila nel nostro Paese.
Nei dieci bilanci finora firmati da Marchionne c’è un totale di 11,5 miliardi di utili complessivi, di cui 8,5 di competenza di Fiat; due i bilanci in rosso: quello del 2004, con l’ultima pulizia dei conti, e quello del 2009 per effetto della gelata in Europa e sui mercati finanziari. Proprio dall’abilità finanziaria di Marchionne deriva quasi metà degli utili di competenza del periodo, ovvero 4 miliardi di euro: 2 miliardi nel bilancio 2005 con le plusvalenze sullo scioglimento della joint venture con Gm e sulla conversione del prestito bancario; altri 2 miliardi nel bilancio 2011 con la rivalutazione della quota di Chrysler acquisita gratis nel 2009.
Per quanto riguarda gli azionisti, in dieci anni il titolo Fiat (compresa dal 2012 Fiat Industrial) ha guadagnato il 174%, un andamento molto simile a quello dell’indice europeo Stoxx del settore auto (+169%).
Risultati finanziari a parte, come è cambiata la Fiat come costruttore di automobili? Nel 2003 Fiat Auto vendeva a livello mondiale circa 1,8 milioni di veicoli; dopo una risalita a 2,3 milioni nel 2007 le vendite sono ridiscese l’anno scorso al livello di partenza, ma grazie ai 2,6 milioni venduti dalla Chrysler il gruppo si piazza, con 4,4 milioni complessivi, al settimo posto mondiale. Proprio l’operazione Chrysler, avviata nel 2008 e chiusa nel giugno del 2009, resta per ora quella che più definisce questi dieci anni.
Il cambiamento che Sergio Marchionne ha portato alla Fiat non è però solo nei numeri, ma nelle relazioni industriali e in quelle con la politica. La vera "rottura" nel campo delle relazioni industriali arriva nell’aprile del 2010, quando Fiat disdice il contratto nazionale è chiede una serie di concessioni ai sindacati come precondizione per investire a Pomigliano nella produzione della nuova Panda. La maggior parte delle sigle sindacali accetta l’accordo, mentre la Fiom è contraria. In due successivi referendum, prima a Pomigliano e poi a Mirafiori, gli operai dicono sì all’intesa. La fabbrica campana produce da fine 2012 la nuova Panda (lo storico stabilimento torinese attende per i prossimi mesi l’avvio degli investimenti sulle auto di alta gamma Maserati e Alfa Romeo). Lo scontro con la Fiom è proseguito a lungo in fabbrica e nei tribunali, mentre le polemiche sull’accordo interconfederale sulla rappresentanza hanno portato a fine 2011 anche alla decisione di Fiat di uscire da Confindustria.
Anche per quanto riguarda la politica, i rapporti con il Governo sono molto diversi da quelli di dieci anni fa, per effetto del miglioramento della situazione finanziaria, ma anche dell’acquisto di Chrysler e del ridimensionamento del peso dell’Italia. Dopo l’acquisto di Chrysler, l’Italia rappresenta ormai solo l’8% del fatturato di Fiat spa: la nuova Fiat Chrysler Automobiles è ormai un gruppo più americano di Ford: il Nordamerica pesa per quasi metà dei ricavi e la percentuale che sale al 70% contando anche l’America Latina. Non a caso, Torino non ha più chiesto incentivi per risollevare il mercato dell’auto - incentivi che andrebbero ormai in gran parte a vantaggio dei concorrenti.
Il problema del gruppo rimane in Italia: nel 2003 Fiat Auto produceva nel nostro Paese quasi 1 milione di veicoli (974mila), scesi l’anno scorso sotto quota 400mila. Il crollo del 50% della domanda di auto in Italia, il trasferimento di produzioni allEst Europa (comune a tutti i costruttori), e il blocco degli investimenti per conservare liquidità hanno inceppato un sistema produttivo che è sopravvissuto grazie all’utilizzo estensivo della Cassa integrazione. La Cig ha permesso di mantenere inalterato il numero di dipendenti in Italia, mentre un altro gruppo che ha vissuto un decennio difficile - la francese Peugeot - ha tagliato nello stesso arco di tempo quasi 40mila posti in patria. Poiché la situazione non può protrarsi all’infinito, il destino della presenza produttiva di Fiat in Italia resta il nodo più importante da risolvere: anche da essa dipende il sistema della fornitura che garantisce all’Italia un cospicuo saldo attivo della bilancia commerciale.
Il piano presentato da Marchionne ai primi di maggio a Detroit prevede investimenti (a livello mondiale) per 48 miliardi in 5 anni, di cui 5 per il rilancio dell’Alfa Romeo, che verrebbero spesi interamente nel nostro paese; proprio il marchio del biscione, insieme alla Jeep, è al centro della strategia di espansione che punta a portare le vendite a 7 milioni di unità nel 2018 dai 4,4 milioni dell’anno scorso. L’Italia dovrebbe diventare una piattaforma di esportazione verso i mercati mondiali, primo fra tutti quello americano; solo così potranno essere saturate le fabbriche e potrà essere mantenuta la promessa di riportare al lavoro tutti i dipendenti in Italia.
Andrea Malan, Il Sole 24 Ore 1/6/2014