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 2014  giugno 01 Domenica calendario

MA LE RIFORME SONO ANCORA TROPPO TIMIDE


I primi 100 giorni sono passati, ma la luna di miele del governo con l’elettorato non sembra affatto esaurita. Lo certificano l’ampiezza del successo del Pd alle Europee e la netta inversione di tendenza in alcuni indicatori della situazione del Paese. Fra gli ultimi 100 giorni del governo Letta e i primi 100 giorni del governo Renzi sono sensibilmente migliorate le aspettative dei consumatori.
Ma anche le condizioni economiche delle famiglie, con una diminuzione delle famiglie che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese e un aumento di quelle che riescono a risparmiare (dati e grafici alle pag. 2 e 3).
Una parte di questo miglioramento del clima generale del Paese è sicuramente una conseguenza del lento risveglio dell’economia europea, dopo ben 7 anni di crisi. Ma una parte, altrettanto sicuramente, è il risultato della campagna di ottimismo scatenata dal premier, una campagna di segno opposto rispetto a quelle dei suoi predecessori. Con Berlusconi l’ottimismo era un modo di mascherare la gravità della crisi, con Monti l’ottimismo era precluso dalla conclamata drammaticità della situazione finanziaria dell’Italia, con Letta l’ottimismo appariva come un atteggiamento di maniera, in quanto contraddetto dall’esasperante lentezza e inconcludenza del governo delle larghe intese.
Con Renzi no, un prudente ottimismo è penetrato nelle menti dei cittadini, rincuorati dal mero fatto che, dopo anni di sacrifici e di rinvii, qualcosa finalmente sembri muoversi. Questa sensazione è indubbiamente alimentata dalla campagna di autopromozione permanente scatenata dal governo e dai suoi ministri, ma è anche il frutto di due elementi reali.
Il primo è che Renzi ha sdoganato, a sinistra, temi che fino a pochi mesi fa erano tabù: il ruolo conservatore del sindacato, gli eccessi della magistratura, l’intangibilità della Costituzione, il primato morale e culturale dei «professoroni», i rapporti con Berlusconi e il berlusconismo. Questi possono sembrare gesti puramente simbolici, ma sono molto di più, perché dilatano enormemente lo spettro delle alternative politicamente praticabili, rendendo possibili riforme che altrimenti non avrebbero alcuna chance di essere attuate.
Il secondo elemento che trasmette l’impressione di movimento è che, nonostante abbia già ampiamente tradito il calendario delle riforme, Renzi due cose incisive le ha effettivamente fatte: gli 80 euro in busta paga e il decreto Poletti sul mercato del lavoro. La prima è percepita come la mossa «di sinistra» di Renzi, perché regala un po’ di ossigeno ai lavoratori dipendenti, ovvero alla base tradizionale della sinistra, che negli ultimi anni si era sempre più allontanata dalla casa madre. La seconda è percepita come la mossa «di destra» di Renzi, perché concede un po’ più di libertà di assumere e licenziare alle imprese, quasi a compensazione dell’altra mossa.
Personalmente penso l’esatto contrario, ovvero che la vera mossa di sinistra di Renzi non sia quella degli 80 euro, ma sia semmai il decreto Poletti. Naturalmente che cosa sia di sinistra e che cosa sia di destra è questione di punti di vista e tuttavia, se stiamo alla classica definizione di Bobbio (è di sinistra chi combatte contro le diseguaglianze) pare difficile non rendersi conto che gli 80 euro rischiano di aumentare la diseguaglianza mentre il decreto Poletti potrebbe ridurla. Le risorse stanziate per il bonus di 80 euro, infatti, vanno quasi interamente a chi un lavoro dipendente già ce l’ha, mentre escludono sia i lavoratori dipendenti che guadagnano troppo poco per pagare le tasse (i cosiddetti incapienti), sia i lavoratori autonomi (drammaticamente colpiti dalla crisi), sia le donne e i giovani esclusi dal mercato del lavoro, tutte categorie mediamente ancora più deboli dei lavoratori dipendenti beneficati dal bonus. Il decreto Poletti, invece, specie nella sua versione originaria (poi peggiorata dal Parlamento), era concepito prevalentemente a beneficio di tali categorie, e in questo senso era più «di sinistra» del bonus.
Ma torniamo al bilancio dei primi 100 giorni. Come dobbiamo giudicare questo inizio, e che cosa possiamo aspettarci per il prossimo futuro?
Molto dipende dal termine di paragone. Se il confronto è con l’immobilismo di Berlusconi, con la timidezza di Monti, con la lentezza di Letta, il bilancio è senz’altro positivo. Se il confronto è con quel che si dovrebbe fare per mettere in sicurezza l’Italia il bilancio non è entusiasmante, specie sul versante di conti pubblici e delle riforme economico-sociali più importanti (mercato del lavoro e tassazione delle imprese).
Il Jobs Act, dopo una pioggia di annunci di scelte imminenti, è stato scientemente parcheggiato nel binario lungo dei disegni di legge, e questo nonostante almeno una parte di esso (il codice semplificato del lavoro) fosse perfettamente pronta, e quindi varabile immediatamente.
Quanto alla promessa di pagare «entro luglio» i 68 miliardi di debiti residui della Pubblica amministrazione verso le imprese, essa non sarà rispettata, né prima delle vacanze estive, né entro il 21 settembre (secondo la scommessa di Renzi con Bruno Vespa); il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano Del Rio ha già mestamente ammesso che si andrà al 2015.
Ma il vero motivo di preoccupazione viene dall’andamento dei conti pubblici. Dico questo non solo perché il rapporto debito-Pil aumenterà anche quest’anno, o perché il pareggio di bilancio è stato rimandato di un anno, ma per una ragione più fondamentale, anche se poco visibile: contrariamente a quanto ci viene raccontato ogni giorno da quasi tutti i mezzi di comunicazione di massa, lo spread non sta andando affatto bene. Quella di un miglioramento dello spread è un’illusione mediatico-contabile, dovuta al fatto che il confronto viene effettuato con la Germania, e non con gli altri Pigs, ossia Spagna, Portogallo e Grecia. Eppure è quello il confronto che conta. Questi sono tempi di calo generalizzato dei tassi di interesse, e in tutti i Paesi dell’euro gli spread con la Germania stanno diminuendo. Quel che dobbiamo valutare, dunque, non è tanto come si sono mossi i tassi di interesse dell’Italia rispetto alla Germania, ma come essi si stanno muovendo rispetto a quelli degli altri tre Pigs (l’Irlanda è tornata da tempo nel gruppo dei Paesi virtuosi). Ebbene, se effettuiamo questo confronto, la situazione appare assai meno rassicurante. Tra gli ultimi 100 giorni di Letta e i primi 100 giorni di Renzi i tassi di interesse italiani sono diminuiti, in Italia, meno che in Grecia, in Spagna e in Portogallo. E questo, presumibilmente, perché i mercati ritengono che le riforme, in Italia, procedono meno velocemente e incisivamente che in Grecia, in Spagna, in Portogallo. Questo è un grave indizio di vulnerabilità. Esso segnala che, ove ci fosse una nuova crisi dell’eurozona, noi l’affronteremmo in una posizione relativa peggiore che in passato, perché i mercati percepiscono le nostre riforme come più timide di quelle degli altri.
Insomma, caro Renzi, non basta sentirsi rock in Italia, occorre anche non apparire lenti in Europa.

Luca Ricolfi, La Stampa 1/6/2014